Auto a idrogeno

Auto a idrogeno più economiche con i nanofili

Auto a idrogeno: messo a punto un nuovo metodo che riduce di 50 volte la quantità di platino necessaria nei catalizzatori delle celle a combustibile a idrogeno. Lo studio, realizzato dall’Iccom-Cnr nell’ambito di una collaborazione internazionale, è stato pubblicato su Science e dimostra come sia possibile abbattere drasticamente i costi di questa tecnologia pulita, rendendone più semplice la diffusione.

Auto a idrogeno: il platino va plasmato

Plasmare il platino in forma di nanofili con superfici irregolari dentellate può ridurre di 50 volte la quantità di questo metallo prezioso impiegata nei catalizzatori delle celle a combustibile a idrogeno, rendendo più semplice ed economica l’applicazione di questa tecnologia per gli autoveicoli. È quanto scoperto da un gruppo di ricerca internazionale, costituito da: Istituto di chimica dei composti organometallici del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Iccom-Cnr), University of California di Los Angeles (Usa), California Insitute of Technology (Usa), Tsinghua University (Cina), Accademia delle scienze Cinese (Cina), California State University (Usa), Northeastern University (Usa) e Lawrence Berkley National Laboratory (Usa). I risultati del lavoro sono pubblicati sulla rivista Science.

Come funziona il metodo

«Il metodo mostra come, plasmando il platino in forma di fili di dimensioni nanometriche con struttura irregolare dentellata, si creano nuovi tipi di siti catalitici altamente attivi, che riducono le barriere di energia che devono essere superate nelle reazioni elettrochimiche di riduzione dell’ossigeno, accelerandole e aumentando così l’efficienza catalitica – spiega Alessandro Fortunelli dell’Iccom-Cnr di Pisa, coautore dello studio – Questo, assieme alla dimensione nanometrica dei fili, che presentano più atomi di platino in superficie anziché all’interno della struttura, fa sì che la quantità di questo metallo prezioso e raro, necessaria per realizzare una cella a idrogeno, si riduca di 50 volte rispetto ai catalizzatori attuali. In questo modo si abbattono molto i costi e in linea di principio, vista l’abbondanza naturale di platino, diventa più fattibile la diffusione a livello globale di celle a idrogeno».

Le celle a idrogeno sono dispositivi in cui si realizza la reazione controllata di idrogeno e ossigeno per produrre elettricità, generando solo acqua pura come sottoprodotto. «Si tratta di una delle tecnologie più attraenti per risolvere il problema del trasporto su autoveicoli, evitando l’uso dei combustibili di origine fossile come la benzina e quindi l’emissione nell’atmosfera di prodotti della combustione quali anidride carbonica, responsabili di inquinamento e riscaldamento globale – prosegue il ricercatore dell’Iccom-Cnr – Le celle a idrogeno per funzionare hanno bisogno di catalizzatori, cioè di sostanze che accelerano le reazioni elettrochimiche, così da produrre l’energia necessaria con potenza sufficiente».

I catalizzatori attuali spendono troppo

Al momento i catalizzatori a base di platino sono gli unici che raggiungono efficienze vicine a quelle richieste, ma la quantità di metallo utilizzato è talmente elevata da renderne troppo costosa la diffusione. «Inoltre, usando la tecnologia attualmente disponibile, il platino, pur abbondante in natura, non è sufficiente a consentire la realizzazione delle marmitte catalitiche a idrogeno che sarebbero necessarie. Le principali industrie automobilistiche investono circa duecento milioni di euro all’anno in ricerca per sviluppare veicoli di questo tipo, e uno dei pochi problemi chiave da risolvere è appunto lo sviluppo di catalizzatori più efficienti. In tale contesto, il nostro lavoro è un esempio di come ricerche a livello fondamentale, che come risultato immediato consentono una comprensione microscopica dei processi, permettano poi rilevanti progressi nel campo delle nanotecnologie, con effetti benefici per l’ambiente e la società in generale», conclude Alessandro Fortunelli.

Gli studi sulle auto a idrogeno

Lo studio è stato finanziato dal Dipartimento dell’Energia (DoE) e dalla National Science Foundation (Nsf) americani, ma le sue basi teoriche sono riportate in uno studio precedente, realizzato in collaborazione con alcuni degli attuali co-autori e reso possibile da una Short-Term Mobility del Cnr.

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