Il dato certo è che sono 64 i pazienti in tutta la Toscana che da novembre dell’anno scorso sono stati infettati dal New Delhi (o più correttamente New Delhi metallo beta-lattamasi), il batterio scoperto nel 2009 in un paziente svedese che tornava dall’India, da qui il nome, particolarmente resistente agli antibiotici. Per questo, come altri microorganismi che hanno acquisito in alcune persone tale resistenza, dunque pericoloso: soprattutto in pazienti fragili, già colpiti da altre patologie o immunodepressi, come i sessantaquattro casi registrati.
Di questi, altro numero certo, 49 sono concentrati nell’area vasta nord-ovest, ovvero il territorio che si estende da Piombino fino a a Pontremoli passando per la Versilia e tutta la provincia di Massa Carrara, dalla costa fino a a Lucca e la Garfagnana con nel mezzo Pisa, dove i pazienti infetti sono ventotto ed altri otto a Livorno. Un dato che si spiega per la grandezza dei due ospedali ma anche la complessità delle patologie dei degenti ricoverati, che arrivano peraltro da tutta la Regione. Trapiantati, immunodepressi, ustionati, ricoverati per patologie cardiopatiche o in terapia intensiva sono più a rischio.
«Ma dobbiamo evitare allarmismi – ha spiegato più volte oggi in conferenza stampa l’assessore alla salute della Toscana, Stefania Saccardi – I numeri, sia pur più alti di quelli attesi, non sono tali, e già da mesi sono state messe in atto le misure necessarie per conoscere meglio il fenomeno ma soprattutto ridurne l’estensione». Per questo sono aumentati ad esempio gli screening all’ingresso in ospedale, effettuati con un tampone rettale ed estesi a tutti i reparti di medicina, ripetuti settimanalmente per tutta la degenza nel caso di esito negativo: ad oggi 546 sono risultati i portatori del batterio in tutta la regione. Ma solo una piccola parte appunto, meno del dieci per cento, ha accusato infezioni e sintomi: 49 nell’Asl nord ovest, quindici nelle altre due aree vaste toscane. Un solo caso a Careggi, nessuno a Prato ed Empoli.
Col batterio New Delhi, spiegano gli esperti, si può anche convivere tutta la vita senza problemi. Sono batteri che normalmente fanno parte della flora intestinale umana e che, solo in taluni casi, diventano resistenti appunto agli antibiotici. Il batterio è registrato ovunque in Italia. Passa da una persona all’altra per contatto. Per questo la profilassi da seguire è quella igienica, dal lavarsi le mani all’uso di presidi e strumenti monouso, fino all’isolamento del paziente, e deve riguardare non solo gli operatori ma i ricoverati stessi e i parenti che si recano in ospedale a far loro visita. L’uso corretto degli antibiotici è soprattutto, a monte, l’attenzione da adottare, ripetono più volte i medici, causa dell’aumento dei batteri (non solo il New Delhi) resistenti.
Chi è portatore (ma non infetto) non deve sottoporsi ad alcuna terapia: salvo che non si tratti di un paziente destinato a ricevere ad esempio un trapianto, su cui sia in atto un trattamento di chemioterapia o che possa presumibilmente cadere in situazioni di immunodepressione. Agli infetti invece, spiega il direttore del reparto di malattie infettive dell’ospedale di Arezzo Danilo Tacconi, membro dell’unità di crisi che la regione ha attivato a maggio e tuttora attiva, a chi arriva con febbre, infezioni cutanee, renali o altri sintomi vengono somministrati cocktail di vari antibiotici: alcuni non più utilizzati in Italia e di cui tutte le Asl toscane si sono dotate, rifornendosi all’estero.
«Il fenomeno – sottolinea l’assessore Saccardi – è stato fronteggiato tempestivamente dalla strutture sanitarie regionali. Non c’è stata alcuna sottovalutazione e il nostro obiettivo in questo momento è la prevenzione». L’unità di crisi, composta da più esperti di infezioni, ha messo a punto una serie di indicazioni operative fornite a tutte le Asl e agli ospedali toscani, con indirizzi omogenei e comuni. Gli screening, che la Toscana regolarmente effettuava nei reparti di terapia intensiva (dove più alto è il rischio di colonizzazione) o laddove l’anemnesi dei pazienti li consigliava, sono stati estesi. E tutti i dati raccolti sono stati inseriti all’interno di un database, per una successiva indagine retrospettiva. Non è comunque possibile, ribadiscono dalla direzione sanità, stabilire un nesso causale diretto, nella maggior parte dei casi, tra contrazione dell’infezione e morte, perché si tratta di una concausa che va ad agire su condizione cliniche già compromesse: pazienti magari che già accusano insufficienze renali, diabetici o con altre patologie, in molti casi anziani.