Prato Canto Tre Gore

Moschee e negozi etnici, le chiusure non servono

Negli anni scorsi si è discusso (e litigato) a lungo sull’opportunità che i molti musulmani residenti nelle nostre città avessero la possibilità di costruire delle moschee in cui andare a pregare secondo il loro culto. I leghisti inscenarono delle manifestazioni demenziali, tipo quella di portare alcuni maiali a pascolare in un terreno destinato alla costruzione di un tempio musulmano. L’argomentazione principale contraria alle moschee era che avrebbero potuto diventare luoghi di organizzazione terroristica, dove potevano essere addestrati i militanti destinati a compiere attentati e altre azioni violente.

Non ci volle molto a spiegare che, edificata una moschea in un luogo certo, sarebbe stato più facile controllare i movimenti della comunità musulmana di una città, individuare eventuali reclutamenti di terroristi e far intervenire le forze dell’ordine; molto più facile di quanto non sia laddove le moschee sono in locali semiclandestini, difficili da individuare ed ancor più difficili da controllare. La trasparenza gioca a favore della sicurezza, perché rende possibile, appunto, l’opera di controllo e di prevenzione.

Quello che è accaduto coi luoghi di culto, nei giorni nostri accade con i negozi etnici nei centri storici delle città: a Firenze e a Prato si stanno predisponendo regolamenti commerciali che impediscono l’apertura di mini market e prevedono la chiusura graduale di quelli esistenti, con la scusa che sono (o si presume che siano) luoghi di spaccio di sostanze stupefacenti. Come le moschee in luoghi certi possono facilitare il controllo del terrorismo islamico, allo stesso modo i negozi etnici nei centri storici delle città possono facilitare la repressione dello spaccio: è meglio sapere dove un certo commercio illegale avviene che non dover supporre che possa avvenire ovunque.

La storia europea della seconda metà del Novecento è caratterizzata dai muri di Berlino e di Belfast: comunisti contro regimi democratici, cattolici contro protestanti; quando le due contrapposizioni storiche si sono concluse abbiamo scoperto nuovi muri, quelli contro le immigrazioni, che sono cresciuti in maniera esponenziale negli ultimi mesi: nella penisola Balcanica, nella repubblica Ceca, in Danimarca, in Ungheria, in Austria, eccetera. In tempi non lontani un “geniale” sindaco di Padova eresse un muro in quella città, per dividere un quartiere molto frequentato da stranieri dal resto della città; in un comune della cintura torinese si sono organizzati i trasporti pubblici con autoctoni e stranieri che viaggiano su autobus diversi; un avventuroso assessore di Prato, alcuni anni fa (giunta Cenni), voleva circondare l’Università di piazza Ciardi con una rete metallica per impedire lo spaccio di stupefacenti.

Per migliorare le cose bisogna distruggere i muri e non costruirli, bisogna aprire e non chiudere i negozi e i luoghi di culto; bisogna dare un calcio alla paura del diverso e ficcarsi in testa che i prossimi cinquant’anni saranno caratterizzati da imponenti migrazioni verso l’Europa: è meglio imparare a governarle, perché esorcizzarle non sarà possibile.

Giuseppe Gregori

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