Alcuni poliziotti cinesi affiancheranno i colleghi italiani nelle zone delle città dove si assiste a un concentramento di loro connazionali. Accadrà a Roma e a Milano. Non a Prato. La scelta incassa però l’approvazione del sindaco pratese Matteo Biffoni, come ho letto su Il Tirreno, che ritiene giusta la sperimentazione nelle città più grandi in quanto Prato è piccola.
Ricordo che Prato, la terza più importante del centro e la seconda della Toscana, è quella dove ha sede la comunità cinese più grande d’Europa nel rapporto tra abitanti italiani e cinesi. È anche sede di organizzazioni criminali. Adesso, da quel che apprendo, diventa piccola. Pensa un po’.
Il procuratore della Repubblica Giuseppe Nicolosi, con il quale ho avuto l’onore di lavorare in passato, precisa che fra Cina e Italia, in termini di sicurezza e giustizia, sarebbe opportuno un rapporto di collaborazione più profondo. Giustissimo.
Facciamo un passo indietro. La Questura di Prato, dopo lo scioglimento del Commissariato, nasce nel 1996 e con essa la Squadra Mobile (settore investigativo) che ha al suo interno anche la sezione che si occupa di criminalità organizzata italiana e straniera. È la prima sezione, composta soltanto da sette elementi, che mi onoro di aver diretto fino al 2009.
Avendo sempre svolto compiti investigativi, quindi di polizia giudiziaria, ancor prima della sua nascita avevamo già prodotto una serie di indagini e di arresti di cittadini cinesi per favoreggiamento alla immigrazione clandestina, sequestro di persona, associazione per delinquere, e poi, più in là negli anni, per riduzione in schiavitù.
Fra le tante, ricordo anche una bellissima operazione che portò alla liberazione, da una casa di San Paolo, di molti cinesi, privi di permesso di soggiorno. Furono trovati corpo a corpo, sdraiati a terra e al buio, chiusi nella stanza, come animali in gabbia. Avevano paura di chiunque gli si avvicinasse. I carcerieri aspettavano l’ultima trance di denaro dalle loro famiglie, qui residenti. In caso di mancato versamento, quelle persone non avrebbero ottenuto la libertà.
Liberammo i prigionieri, arrestammo tutti i responsabili, uomini e donne, che furono individuati in diverse zone della città. Veri delinquenti. Fra questi anche imprenditori e figli di imprenditori residenti a Prato.
Per farla breve, l’iter giudiziario diede loro la libertà per la scadenza dei termini di custodia cautelare e, allorché giunse per ciascuno di loro la pesante condanna definitiva a 16-17 anni di carcere, non se ne trovò più neanche uno. Tutti latitanti e ritornati in Cina, terra con la quale non è possibile avviare le procedure per la estradizione e neanche profonde attività investigative.
Chiunque abbia un minimo di intelligenza, può pensare ed anche affermare che costoro, tornati nella loro terra, abbiano potuto dire ai propri concittadini: «Siamo stati in Italia, abbiamo fatto molti soldi, contrastato le leggi più pesanti, oggi godiamo della nostra libertà e non ci prenderanno mai!».
Cari politici, le mafie vi ringraziano!
A pochissimi anni dalla nascita della Questura, fui inviato a una riunione presso l’organismo centrale d’investigazione del Ministero, a Roma (Sco, Servizio centrale operativo). Facevo anche funzione di vice dirigente della “Mobile”. In quell’occasione, c’erano i colleghi di Roma, Napoli, Modena e Milano. Il funzionario responsabile del settore ministeriale si stava chiedendo e ci chiedeva un parere: se era opportuno inserire nelle fila della polizia italiana anche i cinesi (ormai cittadini italiani) o se era più importante lavorare con la loro polizia nelle città.
Dissi che i poliziotti italiani di origine cinese potevano essere un supporto ma certamente non quanto lo poteva essere la collaborazione con la polizia cinese in Italia.
Ci sono voluti molti anni. Vedo che qualcosa si sta muovendo anche contro la incredibile resistenza di qualche sindaco che sembra non comprendere, e voglio limitarmi a solo a pensarlo, la portata dell’inizio di un rapporto di collaborazione fra le polizie italiana e cinese. Questa poteva invece essere anche l’occasione per individuare cittadini del Fujiang e dello Zhejiang residenti a Prato e spronarli a prestare un rapporto di collaborazione per la traduzione delle intercettazioni nei vari dialetti cinesi. Io avrei provato subito a chiederglielo. Proprio pochi giorni fa, del resto, il procuratore della Repubblica ha alzato il grido di aiuto contro l’ormai accertata indifferenza, in tal senso, del Consolato cinese e, a quanto pare, anche della politica locale che non riesce mai a fiutare qualcosa di buono e, ovunque si guardi, consensi immediati basati esclusivamente sull’emotività.
C’è poco da fare, il “programmato destino” vuole che i processi contro i delinquenti cinesi finiscano con l’impunità degli imputati. Alla politica più in vista interessa un termine usato spesso, fateci caso: “gli equilibri”.
Salvo Ardita