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In bilico (Patrizia Scialoni)

Dentro

Stavano tornando.

Lo percepì da come all’improvviso il gelo serpeggiò nell’enorme stanza vuota.

Provò a muoversi, ma riuscì solo a fare piccoli movimenti.

Anzi, forse pensava di muoversi.

Era nuda, distesa su un piano freddo e duro, immersa in una paura così compatta e reale da poterla quasi toccare. Intorno a lei si alzavano muri alti e grigi, dei quali non riusciva a vedere la fine, mentre una luce impietosa l’accecava: le palpebre rimanevano immobili, incapaci di chiudersi sulle perle marroni dei suoi occhi, obbligandola a fissare quel bagliore eterno. L’angoscia aveva preso il suo cuore in mano, stringendolo sempre più stretto, facendolo sanguinare.

Ma stavano tornando, e il mare del terrore iniziò ad agitarsi, infrangendosi con un rumore terribile sulle coste della sua esistenza, sbriciolandole al suolo.

La ragazza si sentì misera, impotente: la pelle era appoggiata sulle sue ossa con indifferenza riuscendo a malapena a ricoprire lo scheletro, mentre una ragnatela di vene azzurre disegnava sul corpo scarno intricati ricami di dolore.

Un gelo pungente l’avvolse tutta. Loro erano arrivati, e infatti sentì, leggero e impalpabile, un fruscio di vesti e il rantolo dei loro respiri.

a… i… u… t… o…” sillabò la mente, ma le corde vocali impolverate non vibrarono, lasciando passare dalle labbra socchiuse solo un sospiro di sconforto. La ragazza, o quello che ne rimaneva, provò ad urlare, ma l’unica cosa che riuscì veramente a fare fu spremere una lacrima dagli occhi screpolati e asciutti.

Fuori

Aldo si alzò da tavola, radunò le poche cose rimaste sulla tovaglia impilandole sul piatto sporco e mise tutto nel lavello. I rami dell’albero mossi dal vento, grattavano con le unghie fatte di rami neri il vetro della finestra: gli sembrò che lo chiamassero, che lo invitassero a sfidare sé stesso. L’uomo sospirò avviandosi verso il corridoio con il passo lento e le spalle curve aggravate da tutto quel peso che non era più sicuro di riuscire a portare. Indossò il giaccone e mise la mano sulla maniglia.

Io esco” disse a voce alta guardandosi i piedi. Con gli occhi abbassati gli parve di vedere le parole scappare da lui, arrampicarsi sui muri, scivolare tra i mobili, cercando qualcuno. Dal ventre oscuro della casa lo raggiunse una voce di donna.

Chiamami se…”

Certo. Ti chiamo. Ciao.” ma la voce non rispose al saluto tornando nel silenzio della sua tana.

Fuori il vento turbinava in mulinelli imprevedibili danzando insieme alle foglie. Aldo chiuse la cerniera del giaccone e infilò le mani gelide nel tepore delle tasche camminando verso l’auto.

Sto impazzendo…” mormorò al vento, senza la minima voglia di salire su quell’auto che lo avrebbe portato là, senza la minima voglia di tornare in casa, dove sua moglie, persa nel tetro labirinto della depressione, non si accorgeva nemmeno più della sua esistenza. Rimase un attimo fermo con le chiavi dell’auto in mano: in bilico, così si sentiva. Andare là, tornare a casa… La sua vita era divisa tra due grandi amori che lo stavano torturando e uccidendo lentamente. Era un equilibrista inesperto lasciato solo sulla fune tesa: poteva cadere a destra o a sinistra, con l’unico risultato di farsi male in maniera identica. L’ipotesi di riuscire a raggiungere la fine non l’aveva nemmeno presa in considerazione.

Dentro

L’unica cosa di loro che sapeva era che venivano annunciati dal gelo: un’improvvisa folata di aria fredda e pungente che l’aggrediva ai piedi, per poi arrampicarsi lungo le gambe, indugiare un po’ sul ventre, e infine esplodere in un brivido improvviso e feroce che le congelava anche l’anima.

E, subito dopo, avvertiva le inquietanti presenze che calavano su di lei avvolte nei loro mantelli scuri: non era mai riuscita a vederli in faccia, solo una volta aveva intravisto in uno strano luccichio, il guizzo diabolico di un occhio argentato. Pochi secondi di contemplazione, in cui sentiva i loro sguardi lascivi scorrere indisturbati sul suo giovane corpo nudo e indifeso poi, come a rispondere a un ordine muto che solo loro potevano sentire, si chinavano tutti insieme su di lei. In quei casi le era sembrato di scorgere tra le pieghe dei loro cappucci neri lo scintillio compiaciuto di un’orribile sorriso.

Fuori

Il traffico della città lo aggredì con i suoi rumori. Fermo a un semaforo Aldo si accese una sigaretta e soffiò il fumo verso il finestrino. Intorno a lui l’inverno si strusciava sulla città con malcelata soddisfazione, godendo quasi nel rendere difficile le quotidiane incombenze.

Aldo sospirò. I finestrini chiusi avevano permesso al fumo di ristagnare nello spazio angusto dell’auto, avvolgendo l’uomo in un’impalpabile foschia. Sparire… Sì, avrebbe voluto vaporizzarsi, dissolversi e, finalmente, non essere più. Ma non era così che funzionava. No, per niente.

A lui era rimasto l’ingrato compito di sperare, cosa che da tempo non gli riusciva più così bene, perché il suo sperare si era trasformato lentamente, senza che se ne accorgesse, in una immensa illusione che continuava a alimentare con una fiducia malsana alla quale iniziava a non credere più.

Dentro

Loro la stavano leccando… Lingue antiche, bavose e viscide, strusciavano lente e meticolose sul giovane corpo, violando, vorticando, insinuandosi nei suoi anfratti più intimi. Ancora non la potevano mangiare e si accontentavano di assaggiarla… E lei, nella sua forzata immobilità, gridava all’infinito il suo urlo silenzioso, carico di orrore, raccapriccio e ribrezzo mentre le bave vischiose ricoprivano il corpo acerbo di fetida saliva.

E poi lo schiocco soddisfatto e sazio delle loro lingue putride.

E il disgusto che le annebbiava la mente.

E la loro risata, contenta, appagata, sfamata.

E le lacrime che non cadevano, intasandole l’anima.

E quel maledetto urlo, privo di suoni e di parole, che non ce la faceva a fuggire da lei.

Fuori

Aldo entrò nella stanza a testa china.

Aveva incontrato poche persone nel corridoio che lo avevano salutato frettolosamente per sparire subito via. Niente di nuovo, quindi. Davanti alla porta indugiò, aspettando qualcuno che gli mettesse una mano sulla spalla, che cercasse anche goffamente di infondergli coraggio. Ma non arrivò nessuno. L’uomo entrò nella stanza ignorando il silenzio.

La mano candida di sua figlia se ne stava lì, abbandonata sul lenzuolo e lui la prese tra le sue delicatamente, come fosse di vetro.

Ciao principessa “disse. Poi, come faceva tutti i giorni da quasi un anno, iniziò a parlare a sua figlia, raccontandole la vita che incurante di tutto continuava a girare fuori da lei, fuori dal suo coma e dalla sua esistenza di quindicenne tradita. Le raccontò tutto, da quello che aveva detto la televisione a com’era il tempo fuori, le raccontò ciò che provava e come si sentisse solo, iniziando a piangere a un certo punto, e parlava ancora quando il sole tramontò e qualcuno gli disse che era ora di andare via.

Ciao principessa” disse, provando a sorridere, seguendo con gli occhi umidi i sentieri che le vene disegnavano su di lei.

Non ti abbandonerò mai!” e lo sguardo indugiò sul viso tanto amato e che a tratti stentava a riconoscere.

Mi hanno detto che dovrei smettere, lasciarti andare via. Mi hanno detto che sei andata troppo lontano, e non sarà facile farti tornare… Ma non ci credo, no.” La voce aveva un po’ vacillato, come se le parole della sua promessa si rifiutassero di uscire. Ma non poteva abbandonare la sua bambina, non poteva piegarsi e lasciarla morire. No, doveva perseverare, continuare a sperare che lei sarebbe tornata, sentire ancora le sue risate, il suo profumo, la voce squillante e allegra.

Aldo si alzò. Baciò quella fronte di marmo, quei capelli spenti, quella mano scheletrica, senza vedere, evitando con cura di capire.

Leggero, nella notte, gli sembrò di udire un urlo di dolore, ma lo scambiò per il gracchiare di un uccello e uscì dalla stanza solo com’era entrato.

Patrizia Scialoni

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