“Col numero 9 Rossi, col numero 10 Puce e con l’11 Tonino.”
La voce dell’allenatore rimbombò nel freddo e umido spogliatoio di lamiera in quel piccolo campo di periferia. Ma la tensione, la concentrazione e il senso di appartenenza e di importanza del momento, era lo stesso che vivevano al Bernabeu o alla Bombonera. I ragazzi erano seduti sulle panche in religioso silenzio, rotto soltanto da qualche articolazione che schioccava e da qualche tacchetto di acciaio che picchiettava sulle sporche mattonelle del pavimento.
“Ho dato il 10 a Puce?” aggiunse il Mister dopo aver finito di annunciare la formazione, “una cazzata così, non l’avrei fatta nemmeno quando mi bucavo”.
Una fragorosa risata proruppe improvvisamente, facendo cadere una trentina di gocce di condensa dal soffitto, ma serví a intaccare quel muro di nervoso e di ansia che tutti lì dentro si sentivano addosso. Quella squadra era così, la sua forza era quella di essere abituata al peggio, di aver visto lo schifo, di aver camminato accanto alla morte, di aver raschiato sul fondo della vita, di aver vomitato quando non c’era niente nello stomaco da vomitare. Cosa poteva mai esserci di meglio al mondo per loro, che giocare a pallone? Ma una partita di calcio non ha niente di paragonabile, si può avvicinare alle cose più belle e alle cose più brutte della vita, può unire per sempre, o dividere per sempre, può far piangere di gioia o far piangere e basta, può farti passare la più bella settimana della tua vita o la più brutta. E anche ad un gruppo di persone così abituate alle situazioni più estreme, il prepartita causava una forte tensione. Uscirono tremanti tutti insieme e iniziarono il riscaldamento, fra nuvole di fiato, schizzi di rugiada sollevati dai passi pesanti e sguardi truci verso la squadra avversaria che si muoveva nell’altra metà campo.
Emanuele Pucetti si era “fatto” di eroina per tre anni, dai 17 ai 20, poi grazie all’aiuto di persone vicine era riuscito a smettere restando pulito per più di 10 anni, fino a quando, ricadendo in tentazione, aveva rischiato la vita per una overdose. Era entrato in comunità, con grandi sacrifici era riuscito ad uscirne di nuovo e grazie ad una cooperativa sociale aveva trovato lavoro come giardiniere. In più, la cooperativa, aveva una squadra di calcio, la “Granducato” in cui potevano giocare tutti i ragazzi che uscivano dalla comunità. Puce venticinque anni prima, aveva iniziato tutta la trafila delle giovanili nella squadra della sua città, finché l’eroina non era diventata più importante degli allenamenti. Ma non aveva disimparato a giocare e adesso, a 33 anni, era il più forte della squadra e si sentiva felice come non mai.
Si sentiva protetto, coccolato, aiutato, compreso, quel gruppo tatuato e sgraziato era diventato la sua famiglia, avevano tutti più o meno gli stessi trascorsi e lo stesso percorso, per cui , parlavano tutti la stessa lingua. L’unica cosa negativa era che in soli tre mesi dall’inizio del campionato già due compagni di squadra erano spariti senza spiegazioni e senza saluti, creando un po’ di malumore e tanto dispiacere. Perché c’era un’unica, grande, irreprensibile regola. Non si doveva ricadere nella tossicodipendenza. Se succedeva, anche solo una volta, perdevi squadra e lavoro.
Sbuffanti e finalmente accaldati, i ragazzi rientrarono per il riconoscimento con l’arbitro, indossarono la maglia e riuscirono in campo, finalmente per il fischio d’inizio.Il portiere si lamentó che la sua maglia era ruvida e il mister gli disse:”Mino, hai dormito due anni in un cassonetto, ti lamenti della maglia?”. In quel momento, finirono completamente tutte le tensioni.
Effettivamente la squadra andava bene, poco prima della pausa natalizia erano primi in classifica, Puce segnava e serviva assist con regolarità, ma non era importante tutto questo, non contava niente. Era il gruppo che contava.
Emanuele lavorava molto presto la mattina, appena faceva giorno. Gli costava fatica, ma era entrato nel ritmo giusto, si era adattato e in fondo gli piaceva anche stare nel verde, curare piante e fiori, tenere pulito e ordinato qualche pezzetto di natura sommersa dal cemento. E poi era un ragazzo, un uomo, con lo spiccato senso di riconoscenza e la comunità prima e la cooperativa poi, se la meritavano tutta. Lavorava gomito a gomito con un suo compagno di squadra, Fabrizio Buti, il rude e silenzioso difensore centrale della squadra, il suo migliore amico. Fabrizio lo aveva preso sotto la sua ala protettrice fin dall’inizio, era come un fratello maggiore per Puce, lo aveva aiutato nelle crisi d’astinenza e preso a male parole quando stava per ricaderci.
Proprio Fabrizio, su un calcio d’angolo segnò il primo gol quella mattina e Puce, su calcio di punizione, il secondo, mettendo al sicuro il risultato. I due amici eroi di quella domenica, dopo la doccia, si fermarono a prendere un caffè. “Sono quasi due anni che sono pulito” disse Fabrizio ad un certo punto, “e te quasi otto mesi, sono fiero di te”. A Emanuele vennero i brividi, non riusciva ad immaginarsi un futuro senza la protezione della cooperativa, della squadra e di Fabri, erano otto mesi che era pulito, troppo poco per avere la sicurezza di non ricaderci. Fu comunque contento che l’amico, si sentisse così orgoglioso di lui.
I mesi passarono e l’inverno freddo iniziò a cedere preziosi minuti alla luce primaverile, i campi si ammorbidirono con la temperatura più mite e Puce sembrava avesse le ali ai piedi.
A fine aprile la Granducato era sempre prima in classifica, seguita dagli antipatici della Monte Audax. Fra queste due squadre, si sarebbe giocato il forse decisivo match all’ultima giornata. Il titolare di Puce e di Fabrizio, il gestore della ditta di giardinaggio, era molto contento di loro, la comprensibile diffidenza iniziale si era pian piano affievolita e i due ragazzi si erano conquistati il loro spazio con attenzione e professionalità. Emanuele dopo dieci mesi lontano dalla droga aveva perso quel bisogno fisico di bucarsi, quella dipendenza mortale, quello svegliarsi la mattina con l’unico obiettivo di trovare l’eroina. Il drogato non ha altro scopo che farsi, non ci sono che mezzi leciti o illeciti per raggiungere il fine. Il buco. I due ragazzi col datore di lavoro avevano instaurato un rapporto amichevole e cordiale, grazie all’aiuto dei gestori della cooperativa, la collaborazione era perfetta e tutto andava liscio come l’olio. La terzultima di campionato inizió con una tensione palpabile negli spogliatoi, il portiere come al solito si lamentó :”Siamo primi in classifica ma io ho la maglia piena di buchi”. I compagni si irrigidirono pronti a rispondere per le rime, ma il mister li precedette :”Mino, quella non è la maglia, sono le tue braccia”.
La partita fu una vittoria schiacciante, finí con una tripletta di Puce. Ma la notte stessa, ebbe un incubo. Sognó la sensazione di non riuscire a bucarsi in crisi di astinenza. Gli era successo veramente anni prima. L’agitazione era irrefrenabile, il tremito continuo, i pensieri che scappavano come serpenti, la siringa che non riusciva a bucare la vena, la pelle bruciata dall’eroina iniettata male, la fretta incessante e impellente di sentire la droga entrare dentro, la paura di non riuscirci, il terrore, il bisogno di stare calmo e l’impossibilità di poterlo fare. Gli occhi che non riuscivano a mettere a fuoco, il sudore freddo spillare dai pori, le mani tremanti e impacciate con la siringa stretta. Emanuele si svegliò fradicio, col fiato corto, la bocca amara e una paura fottuta.
Perché mai, dopo quasi un anno, aveva sognato in modo così nitido e reale, quello schifo di situazione? Nelle due notti successive sognó di nuovo il suo passato. In una di queste, l’incubo era ancora una crisi di astinenza, questa volta senza la siringa in mano, ma con i dolori di stomaco, la diarrea, la bile in gola, la rabbia, la sofferenza fisica, la paura di morire, la ferocia, che precedeva la nuova assunzione. La seconda notte fece un sogno strano. Era buio, lui era fuori dalla porta della comunità, cercando di entrare, sporco, infreddolito, impaurito, sdraiato sul ruvido asfalto senza nemmeno la forza di mettersi in piedi. Poi il sogno si spostava all’interno, dove la paura e l’inquietudine, lasciavano il passo ad una sensazione di accoglienza, di calore, di protezione, di famiglia, di sicurezza. Puce si svegliò piangendo, ricordando bene di aver vissuto quelle sensazioni, ma con la paura di poterle perdere per sempre. La comunità, la cooperativa, la squadra, gli amici, avevano tutti una precarietà, una instabilità che rendeva Emanuele nervoso ed inquieto.
E quegli incubi furono solo il preludio a quello che successe il venerdì mattina prima della penultima di campionato. Alla porta si presentarono il presidente della comunità di recupero tossicodipendenti, il direttore della cooperativa e un topo di biblioteca in ghingheri che Puce scoprì trattarsi di un avvocato. Le parole che gli giunsero alle orecchie furono strane, lontane, ovattate, come pronunciate sott’acqua. Lattina, datore di lavoro, carta stagnola, armadietto, dose, delusione, regole, doveri, articoli e comma. Sembrava fatto da come non riusciva ad emergere da quella melma, notava gli occhi dei due uomini che gli sembravano ludici di dispiacere e accesi d’ira, ma non capiva il perché. Aveva una frase che gli rimbombava in testa. Un giorno alla volta. Come un mantra. Un giorno alla volta. Come una cantilena. Un giorno alla volta, come un rullante di batteria. Un giorno alla volta. Un giorno alla volta. Un giorno alla volta. Era la frase che si ripetevano sempre in comunità, quando l’astinenza si faceva pesante e la voglia di lasciarsi andare era irresistibile. Nel magazzino della ditta di giardinieri, avevano trovato un cucchiaino sospetto gettato via, il datore di lavoro aveva aperto gli armadietti e in quello di Emanuele aveva trovato il necessario per fumare l’eroina. Come da regolamento, era stato licenziato ed espulso dalla squadra.
Per tutto il giorno restò apatico, disteso sul divano. Le emozioni e le sensazioni erano ovattate, opache, confuse. Non riusciva a mettere a fuoco bene cos’era successo, che conseguenze avrebbe potuto avere, come sarebbe stata la sua vita da lì in avanti.
Il sabato si svegliò lucido e capì che era finito tutto. Era stato allontanato dal lavoro, dalla cooperativa, dalla squadra, dagli amici.
Dalla sua vita dell’ultimo anno, l’unica vita che avrebbe voluto vivere, l’unica vita che aveva avuto da quindici anni.
Uscì e si diresse a piedi, strascicando i passi verso la stazione, ben sapendo che andava a cercarsi una dose, ben sapendo che si sarebbe definitivamente ucciso. Ma non gli importava più niente. Un tossico sa bene che la morte migliore che lo aspetta è quella per overdose.
Si fermò su una panchina riscaldata dal sole, ad occhi chiusi, facendo quasi un bilancio finale della sua vita. Il tempo passò rapido e lento, dolce e insopportabile, in attesa di un pusher e senza scopo. Si alzò lentamente e si diresse verso un angolo nascosto dove un grande albero alla fine di un muro proteggeva gli scambi fra spacciatori e tossici, ci si appoggiò di schiena e si concesse ancora di chiudere gli occhi, come per non far uscire tutta la disperazione che sembrava inondargli il cervello. Dopo un tempo indefinito sentí qualcosa afferrrargli il braccio. Aprí gli occhi di scatto, ma l’albero copriva la persona che lo stava stringendo, sbucava soltanto una mano che lo teneva stretto poco sotto il gomito. Automaticamente Emanuele abbassò lo sguardo, vide il tatuaggio sul dorso della mano e lo riconobbe all’istante. Era la mano del mister. Il suo mister. L’allenatore della squadra. Gli si piegarono le ginocchia, la forza scomparve dal suo corpo e graffiandosi la schiena alla corteccia dell’albero scivoló seduto a terra. Iniziò a piangere come un bambino, con lacrime potenti e prepotenti, singhiozzando e gemendo, dolorosamente. La regola diceva che era severamente negato ai componenti della squadra o della comunità di avere qualsiasi tipo di contatto con chi era stato espulso. Era rigorosamente vietato. Nessuno doveva più avere notizie né tantomeno incontri. Era tassativamente proibito, ma il mister non aveva resistito, doveva fargli sentire la sua vicinanza, in un modo o in un altro. Era drasticamente impedito qualsiasi dialogo con chi era ricaduto in errore, ma l’allenatore era come un padre, un fratello e ci teneva troppo. Emanuele era seduto a terra che piangeva a dirotto, la mano del mister, sbucando da dietro l’albero gli accarezzava la testa, dolcemente, senza dire niente. Questo contatto così intimo e così poco maschile, era la cosa più calda, vicina all’amore e la cosa più dilaniante e straziante che Emanuele ricordasse. Come se avessero improvvisamente staccato la corrente la mano si alzò dai suoi corti capelli e com’era arrivata, sparì.
Emanuele sentí un freddo profondo, un vuoto, un dolore infinito, si alzò e corse via nella direzione opposta. Gli era venuto in mente una cosa importante, fondamentale. L’eroina era la droga della solitudine. Chi si bucava si estraniava, non l’assumeva per socializzare o per sballarsi in discoteca, ma per alienarsi dal mondo, per estraniarsi da tutto. Chi si faceva di eroina moriva da solo. Il tossico che inalava, fumava o si iniettava l’eroina, lo faceva da solo, di solito in qualche sudicio angolo buio e così la sua vita assumeva i connotati di un eremita, di un reietto, di un escluso. Emanuele ci era passato, ma la comunità, la cooperativa e la squadra gli avevano fatto vedere un altro modo di vivere, un vero modo di vivere e lui si era reso conto in quel momento che non voleva morire da solo. Poteva anche morire, ma non da solo. I giorni seguenti furono difficili, al limite dell’impossibile, ma passarono. Emanuele si aggrappó al solito mantra. Un giorno alla volta. Il calore della mano del mister sui suoi capelli era come una stigmate, un segnale di un bene enorme, ma tanto doloroso, terribilmente doloroso. Un giorno alla volta. E un giorno alla volta, la settimana passò.
“Quel pallone pesa una tonnellata” disse qualcuno sottovoce dalla panchina mentre Puce lo sistemava con calma sul dischetto. Il portiere della Monte Audax stava facendo il solito giochino antipatico per innervosire l’attaccante, ma non stava sortendo un grande risultato. Non si era mai sentito un silenzio così assordante in un campo di calcio. La tensione delle due squadre, delle panchine e degli spettatori era enorme. L’unico che non era teso, era Emanuele Pucetti. Era proprio dove avrebbe voluto essere. Al centro del mondo. Dopo esattamente sei giorni d’inferno, si erano presentati alla sua porta di nuovo il presidente della comunità, il direttore della cooperativa con stavolta il mister che aveva un sorriso da orecchio a orecchio. Puce non aveva capito che dopo la terza chiara spiegazione cos’era successo e cosa volevano ancora da lui. Si dovette sedere e bere un bicchiere di acqua per non sentirsi male. Era stato Fabrizio Buti a drogarsi di nuovo. Aveva nascosto lui la dose e quegli oggetti nell’armadietto di Emanuele, poco prima che procedessero alla perquisizione, quando si era accorto di aver smarrito il cucchiaino. Aveva fatto ricadere la colpa su di lui. Ma poi il mercoledì successivo, l’avevano trovato che si stava bucando un bagno, l’avevano denunciato e lui aveva confessato. Emanuele pianse piano piano, di gioia, di scampato pericolo, di sollievo, di rabbia verso Fabrizio.
Seppe che la squadra aveva perso il sabato precedente e che la Monte Audax adesso era due punti avanti. La domenica, l’ultima di campionato, ci voleva per forza una vittoria. La squadra riabbracció Puce con emozione, avevano pensato di non rivederlo più e la gioia era enorme. La partita fu combattuta e tesa, fino a cinque minuti dalla fine quando l’arbitro fischió un rigore.
Sulla faccia di Emanuele, che guardava il pallone posato sul dischetto, passò una piccola ombra di paura e di malinconia per Fabrizio, perché adesso, loro erano una squadra, fianco a fianco, mente lui, stava sicuramente morendo da solo. Inizió la rincorsa per calciare il rigore sorridendo, pensando che se avesse segnato o avesse sbagliato, la vita sarebbe comunque continuata. Un giorno alla volta.
Enrico Pasquetti