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Racconto di Erika Casali

«Sono Inna».
È solo un sussurro ma Marco ha passato abbastanza tempo all’associazione per capire quando è tempo di chiacchiere e quando no.
È spaventata, ha bisogno che qualcuno vada a prenderla, ma non sa dove si trova.
«Esci da lì, corri in strada, dimmi la via. Chiedi a qualcuno», suggerisce Marco cercando di mantenere un tono di voce tranquillo mentre s’infila la giacca e apre la porta. «Rimani dove c’è gente».

Se quella settimana non fossi stata a letto con l’influenza, sarebbe toccato a me tenere il telefono. Facciamo a turni tra i volontari che si rendono disponibili. Il cellulare dell’associazione può anche tacere per giorni, così ti dimentichi di averlo in borsa. Poi all’improvviso magari ti chiama una ragazza che ha bisogno di andare dal dottore, oppure ti chiama Inna, di cui nessuno aveva più notizie da mesi e ti chiede, per favore, di andare a salvarla. Il telefono dell’associazione non suona per altre ragioni.
Una notte, semplicemente, Inna era scomparsa dallo spiazzo davanti alla fabbrica sulla via Emilia dove di solito aspettava i clienti. Eravamo passati e ripassati, ma di lei non c’era traccia. Poi avevamo deciso di chiedere alle ragazze che lavoravano nella stessa zona. Niente. Inna era sparita dalla strada. Nessuno l’aveva più vista, nessuno ne sapeva più niente.

La sera in cui eravamo riusciti ad avere un contatto più stretto con lei, era stata davvero una grande soddisfazione per tutta l’associazione. Tanto che da quel momento, gli sforzi di tutti i volontari operativi si erano concentrati su Inna. Sulla comunicazione con lei. Per me era più facile, parlando russo ero praticamente l’unica tra i volontari con cui Inna potesse imbastire una conversazione, seppur minima. Per questo, il mio giro di pattuglia serale, si concentrava sempre e solo nella sua zona. L’avevo presa a cuore, era chiaro che era molto spaventata e avrei voluto poterla portare via da quell’angolo di strada.
Era una ragazza minuta, dalle ossa piccole e i tratti quasi asiatici. Aveva lunghi capelli dritti che le arrivavano fin quasi alla vita. Il suo sguardo non era solo sfuggente ma quasi sempre incollato a terra. Parlava con voce bassa e incerta, all’inizio probabilmente per una questione linguistica, ma anche quando il suo italiano era migliorato, il tono era rimasto sommesso.
Avvicinarsi a lei non era un problema, ma si capiva subito che, per quanto non fosse evidente, qualcuno la controllava a vista. Non ci guardava mai, rispondeva a monosillabi, quando rispondeva. Lanciava rapide occhiate alla sua destra, dove noi non siamo mai riusciti a vedere altro che alberi e cassonetti strapieni. Fino a quando una sera Inna era praticamente saltata dentro alla macchina non appena ci eravamo fermati vicino a lei.
Io e l’altra volontaria l’avevamo portata alla casa rifugio, solo per poter chiacchierare in un posto caldo e dove nessuno si sarebbe domandato perché la macchina rimanesse ferma tanto a lungo senza caricare la ragazza.
All’inizio Inna aveva raccontato della sua famiglia, della sua vita in Ucraina in una casa troppo povera, degli studi di veterinaria che aveva dovuto abbandonare perché non c’erano abbastanza soldi per continuare. Dei suoi fratelli grandi che entravano e uscivano di prigione e poi, di come aveva deciso di venire in Italia a lavorare per poter mandare soldi alla sua mamma.
Quando aveva cominciato a parlare di Irina, la donna che l’aveva avvicinata nel suo paese proponendole di intraprendere l’impiego più vecchio del mondo, sulle strade della fantomatica e lontanissima Bologna, si muoveva cauta tra la paura e la rabbia. Ci aveva detto anche di Misha, il magnaccia a cui era stata venduta che la controllava sempre e che spesso la picchiava.
Avevamo cercato di rassicurarla dicendole che l’avremmo aiutata, che le saremmo stati vicini in ogni caso: sia che avesse voluto tornare a casa o smettere di fare la strada per provare a trovare un’occupazione in una qualsiasi città italiana. A quel tempo lei non parlava ancora bene l’italiano, e guardava le nostre labbra muoversi con molta attenzione mentre combatteva con l’istinto di scappare. Non avevamo dubbi sul fatto che avesse capito la proposta che le stavamo facendo. Non era una questione linguistica, ma dei pro e dei contro che la sua scelta avrebbe comportato.
La cosa fondamentale era che sapesse che c’era qualcuno su cui poteva contare, qualcuno che l’avrebbe sostenuta a prescindere dalla sua decisione. L’importante era che sapesse di avere un’alternativa.
L’incontro ci aveva riempiti di speranza.

Poi però Inna è scomparsa.

Passano mesi prima della telefonata per cui l’intera associazione stava trattenendo il respiro. Non appena capisce dove si trova Inna, Marco si precipita da lei e, nel giro di 20 minuti, sono seduti entrambi nella cucina della casa rifugio.

Quando mi riprendo dalla febbre, corro in associazione. Mi hanno tenuta informata per telefono ma voglio vedere Inna, voglio guardarla negli occhi e voglio sentire la storia raccontata da lei, voglio essere io a scrivere la denuncia insieme a lei.
Inna era scomparsa perché aveva voluto tornare a casa, in Ucraina. Era tornata dalla sua famiglia, era scappata dalla strada. Non aveva parlato con nessuno delle sue intenzioni per non rischiare che Misha e Irina si mettessero in allerta. Non aveva fatto in tempo a smettere di guardarsi intorno furtiva, che tutto era ricominciato da capo.
Aveva dovuto tornare in Italia perché le minacce, da parole si erano trasformate in fatti ed erano arrivate fino al suo paesino di provincia. Era in pericolo, aveva paura per sé e per i suoi, e doveva scappare. Chi conosceva? Cosa sapeva?
Aveva avuto il coraggio di tornare solo perché Irina era scomparsa. Morta? Scappata? Non lo sapeva e non le importava. Quello che la preoccupava era che, dopo appena un mese a casa i suoi fratelli erano stati arrestati, questa volta senza passare da un giudice, mentre sua madre continuava a riportarle voci di persone diverse che chiedevano se davvero fosse a casa. Non poteva fare altro che riprendere il suo posto sulla via Emilia.
A ventidue anni sentiva addosso un peso da cui non capiva come liberarsi. Era in trappola, quegli ultimi pochi anni vissuti scappando e guardandosi le spalle, avevano annientato ogni bel sogno che poteva aver fatto nella sua vita precedente.
Appena arrivata in Ucraina, aveva usato i soldi guadagnati in Italia per montare una porta blindata e una telecamera esterna nella casupola della sua mamma. L’aveva avvertita di non avvicinarsi alla porta, a meno che non conoscesse la persona che stava suonando. Così si era sentita un poco più al sicuro.
Non riusciva più a vivere in questo modo, voleva solo respirare tranquilla ed essere una normale ventiduenne. Ma come poteva riuscirci? Me lo chiedevo spesso, mi domandavo dove si trovasse la forza per lasciarsi un’esperienza del genere alle spalle. Erano successe troppe cose, erano passati troppi corpi su di lei e aveva vissuto troppe situazioni che l’avevano obbligata a guardare la vita da un’altra prospettiva, con occhi del tutto diversi. Con diffidenza. Aveva disimparato a fidarsi, anche solo di se stessa. Non ci credeva più.
L’aveva fatto una volta e le era andata male: dopo che le avevamo proposto di lasciare il marciapiede, di avviare le pratiche per il processo e per ottenere i documenti per stare in Italia e trovare un lavoro, aveva dovuto fare una scelta. Anche qualcun altro infatti le aveva offerto un’alternativa e l’aveva lusingata con proposte allettanti e il miraggio di una vita da favola. Una vita senza marciapiede.
«Era un mio cliente fisso, Giuseppe. Una sera in cui mi sentivo di non farcela proprio più, mi ha lasciato il suo numero di telefono. Mi ha promesso di aiutarmi a scappare per rifarmi una vita. In cambio dovevo passare passare un po’ di tempo insieme a lui». Ride ma non c’è gioia in quel suono, solo sarcasmo. «Quando abbiamo parlato di lasciare la strada, quella sera, io e te con gli altri volontari, non mi avete fatto proprio una proposta incoraggiante».
Io e gli altri operatori le avevamo proposto la realtà: di essere una giovane straniera senza documenti e senza lavoro, senza alcuna sicurezza economica ma con mille paure da combattere o almeno da accettare per imparare a conviverci. Le avevamo offerto di essere una ragazza con un passato difficile, un presente di cui si vergognava e un futuro molto incerto.
Così, dopo essere tornata in Italia, in un’altra di quelle brutte sere in cui neanche morire sembrava un’opzione viabile, Inna aveva deciso di seguire Giuseppe.
Qui si trova in difficoltà a raccontare, è passato troppo poco tempo, le sue sensazioni sono ancora molto fresche. Mi piego in avanti e cerco i suoi occhi ma non la tocco.
«Non sei più sola, Inna».
Dopo qualche minuto di silenzio riesce a riprendere la sua storia.
«Mi sono accorta subito di aver sbagliato a seguirlo. Mi ha chiuso a chiave in un appartamento. Passavo le mie giornate lì dentro senza avere niente da fare se non aspettare. Aspettarlo. Quando lui arrivava facevamo sesso. Il mio compito era di trasformare in realtà le sue fantasie erotiche».
Per quanto non sia la prima volta che raccolgo la denuncia di una ragazza, devo smettere di scrivere e andare a fumare una sigaretta sul balcone perché mi viene da piangere. Violentata per mesi e prigioniera in un appartamento da cui non poteva uscire.
Ma se lei è abbastanza forte da raccontare ad alta voce quello che le è successo, io devo tornare dentro e ascoltare fino in fondo. Spengo la sigaretta e chiudo la porta finestra dietro di me. Inna si mangia le unghie ma sta seduta ben dritta sulla sedia. Ci sorridiamo e riprendiamo a scrivere la sua denuncia.
Un giorno Giuseppe era andato a farsi una doccia e aveva dimenticato sul tavolo della cucina il cellulare e le chiavi di casa. Inna non aveva saputo subito cosa fare, aveva paura di essere scoperta ma capiva che se non avesse approfittato di quel momento, forse non se ne sarebbe più presentato un altro. Aveva fissato quei due oggetti con intensità, pochi secondi che le avevano tolto il respiro. Aveva cercato quel numero che tanto tempo prima le avevano dato i volontari: uno spoglio cartoncino colorato con un numero scritto a mano.
Sentire la voce dall’altra parte del telefono le aveva dato quel coraggio che non riusciva a racimolare da sola. Con il cellulare in mano e il rumore della doccia in sottofondo, il suo sguardo era tornato alle chiavi dimenticate con leggerezza sul tavolo. Le aveva afferrate senza il minimo rumore e senza un filo di fiato, per poi correre fuori. Arrivata in strada i suoi occhi impazziti si erano immediatamente incollati a un bar dove era entrata senza smettere di guardarsi alle spalle; sentiva il cuore batterle negli occhi e nelle orecchie. Vedere l’espressione fra lo stupore e l’indifferenza dei pochi avventori l’aveva fatta sentire al sicuro. Poi era arrivato Marco.

Oggi io e Inna usciamo insieme, è la prima volta ci incontriamo solo perché abbiamo voglia di vederci e non perché io faccio la volontaria e lei la prostituta.
Andiamo in un bar pasticceria, vicino alla funivia, dove ordiniamo tanti dolci diversi perché Inna è una golosa, e poterselo permettere fa parte dell’essere liberi.
«Sai qual è il mio sogno?» dice mentre raccoglie con la punta di un dito lo zucchero a velo dal piattino.
«Qual è?»
«Mi piacerebbe tanto riuscire a completare i documenti per mio fratello minore perché venga qui, così potremmo aprire un negozio, uno a caso, di qualsiasi cosa, e lavorare insieme. Mi piacerebbe che lui potesse contare su di me completamente, e io su di lui. Tipo che un giorno ho voglia di andare al mare e allora va lui in negozio per me, e poi il giorno dopo magari ne ha voglia lui e allora io prendo il suo posto».
La speranza è un segno di tranquillità, vuol dire che tutto va bene, o che almeno le cose si stanno muovendo nel verso giusto. Quando riesci a immaginarti il domani significa che il tuo presente ti lascia la libertà di sognare. Per me è una scoperta. Non mi ci ero mai soffermata ma lo vedo succedere davanti ai miei occhi tra cannoli e bomboloni.
I primi tempi di Inna, dopo Giuseppe, erano stati un inferno. Aveva paura di tutto, non voleva uscire e se proprio doveva, era solo a condizione che qualcuno la accompagnasse. Era già capitato che qualche ragazza avesse accettato l’aiuto dell’associazione e fosse stata portata al rifugio ma che poi, dopo pochi giorni, ci ripensasse e tornasse dal suo magnaccia. Questo accade perché quando una prostituta scompare dalla strada, chi la controlla e la obbliga a vendere il proprio corpo minaccia la sua famiglia, di ucciderli, di mutilarli. Manda messaggi sul cellulare, ha contatti dappertutto e le ragazze non sanno mai se succederà davvero o no. Alcune non riescono a reggere la tensione e tornano indietro. Mettersi in ostaggio è l’unica maniera che hanno per sapere che le loro famiglie sono protette, almeno per il momento.
Quando scappano da qui, dal rifugio, mettono a repentaglio non solo loro stesse ma tutte le persone che ci vivono e ci lavorano.
Insomma, è passato un bel po’ di tempo prima che Inna si sentisse abbastanza sicura di se stessa, prima che riuscisse a trovare il coraggio di guardare oltre le scarpe mentre camminava per strada.
«Sai che l’altro giorno sono andata a fare la spesa con Marco all’Ipercoop?»
«Sì, mi ha detto che siete andati insieme e mi ha detto che hai avuto un attacco di panico».
Annuisce.
«Mentre camminavamo lungo le corsie, all’improvviso è comparso Giuseppe. Ho abbassato subito lo sguardo, mi girava la testa, mi mancava il respiro, e il cuore batteva velocissimo. Mi sono attaccata al braccio di Marco e gli ho detto che me ne volevo andare». Beve un sorso di cappuccino e continua tenendo gli occhi ben puntati di fronte a sé. «Mentre ci avvicinavamo alla porta, sai cos’ho pensato?»
Scuoto la testa.
«Non ero io che dovevo avere paura. Era lui. Io non avevo fatto niente di male, avevo tutto il diritto di andare a fare la spesa. Lui ha commesso un reato. Lui deve vergognarsi. Lui deve avere paura di incontrarmi. Anzi, deve essere terrorizzato al pensiero d’incontrarmi, perché io so chi è. Io so cosa ha fatto».
«E allora ve ne siete andati?» So già che non se ne sono andati. Marco era molto colpito mentre mi raccontava cos’era successo dopo.
«Ho fatto una cosa che mi ha talmente sorpreso che non ci posso credere ancora oggi. Sono tornata indietro a cercare Giuseppe. Gli sono andata di fronte e l’ho guardato fisso negli occhi. La cosa più incredibile è che lui ha abbassato i suoi ed è uscito dal supermercato di corsa. Non so cosa speravo di ottenere con il mio gesto di sfida, ma questa, te lo giuro, è stata la cosa migliore che potesse succedere. Mi ha fatto sentire forte».
«Tu sei forte, Inna. Quello che hai fatto, cambiare la tua vita in questo modo e affrontare Giuseppe, sono azioni da persona coraggiosa».
«Ora sono tranquilla, cammino per le strade senza paura. Sono libera. Ho un impiego, non mi piace molto e vorrei tanto poter trovare qualcosa di più interessante che non le pulizie. Ma non devo niente a nessuno».
«Pensi spesso a quando lavoravi sulla strada?»
«Sì, ma in modo diverso», prende un bel respiro. «Una sera sono uscita anche io con i volontari, per parlare con una nuova ragazza russa che ancora non capisce l’italiano. Sentirsi parlare nella tua lingua, quando sei straniero e soprattutto quando ti trovi in una situazione simile, aiuta molto a creare un contatto e ad aprirsi. Per me è stato così, con te».
Annuisco. Per me è molto importante riuscire a comunicare con le ragazze nella loro lingua materna, soprattutto con quelle appena arrivate. Le mette a loro agio e toglie almeno il primo strato di difficoltà che rappresenta l’essere stranieri.
«È stata davvero una strana impressione uscire con i volontari: mi sentivo al sicuro, dentro l’auto, al caldo, mentre guardavo fuori. E ho pensato, ecco come ci si sente. Guardi le ragazze sul marciapiede al buio e potresti anche non fermarti, potresti anche fingere di non averle viste. Non corri nessun pericolo. L’ho pensato solo per un attimo, poi mi sono ricordata cosa significa stare in piedi per ore nella nebbia ad aspettare che qualcuno si fermi mentre speri il contrario».
«Quindi lavori di nuovo in strada alla fine!» Ridiamo entrambe, per fortuna che a questo punto di molte cose si può ridere. «Non credi però che sia ancora un po’ presto per uscire? Io non so se ce la farei».
«Ma infatti da quella volta non sono più uscita, non mi sentivo affatto pronta ad affrontare la situazione. Ora invece credo che potrei riuscirci. Anzi, lo voglio fare al più presto. Voglio che anche le altre ragazze sappiano che possono essere libere, voglio che sappiano che è possibile. Credo che, se ci sarò anche io sulle pattuglie, sarà più facile per loro credere alle parole dei volontari e credere che, nonostante tutto, ci sono ancora delle persone di cui ci si può fidare».

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