Da piccoli avete mai avuto una, o giocato alla capanna? E della capanna, cosa vi attraeva? Il senso di indipendenza, di avventura? Poi siete diventati grandi e avete iniziato a trovare più attraenti belle case solide, hotel, e talvolta la trasgressione di un campeggio. David Lefèvre no. Nato nel 1973, instancabile viaggiatore francese, ha scelto già a partire dai vent’anni di errare per il mondo, che ha percorso in buona parte, mosso da quello che Baudelaire definiva “l’orrore del domicilio”, mantenendosi con piccoli lavori, e con una predilezione per gli ambienti selvaggi. Da nove anni ha scelto di vivere in una capanna in Cile, sull’isola di Chiloé, in un modo il più possibile prossimo all’autosussistenza. E ha scelto di raccontare in modo minimale ed essenziale la sua esperienza, nel librino da tasca La grammatica della sobrietà, pubblicato in Italia da Ediciclo editore (96 pp., 9,50 euro).
Per Lefèvre la capanna è indissolubilmente legata all’immaginazione infantile, alla scoperta della lettura, alla ricerca dell’indipendenza che passa per quel rito di passaggio che è l’arte di arrangiarsi. Da adulti, diviene una consapevole scelta di precarietà, e allo stesso tempo abbracciare lo status di cittadini del mondo, pronti ad adattarsi a ogni luogo. E anche una pratica di solidarietà verso gli altri mancare la citazione del Barone rampante di Calvino, ribelle che si pone al di sopra del mondo.
Certo, oggi, la capanna è ritornata un po’ di moda, anche in versioni edulcorate come gli agriturismi o certi alberghetti essenziali e poveri, che sono per chi vuole godersi solo paesaggio e natura. Su Airbnb non è difficile reperire una capanna armena a prezzi modici. Certo, la scelta di Lefèvre, è profondamente radicale ed etica, una decisione di sfuggire alle costrizioni sociali e di offendere il meno possibile il depredato ecosistema. Ma forse tutti noi dobbiamo riflettere su quanto il consumo e la viandanti, in una catena di gente di passaggio che contribuisce a rattoppare, consolidare, arricchire, tenere in vita rifugi instabili. La capanna parla di un rapporto quasi mistico nella natura, di una immersione profonda e allo stesso tempo rispettosa e attenta a prelevarne solo le risorse indispensabili. Così i soggiorni in capanna, lontani dal superfluo della civiltà, si pongono come momenti di rinascita, all’insegna di una filosofia della libertà e della tranquillità. Non poteva comodità ci abbiano privati del piacere del nomadismo e di quello dell’essenzialità, e trovare dei momenti di alternanza alla stanzialità che ci consentano di non dimenticare né noi stessi, né il legame con la natura spesso smarrito. Ritrovare, come esorta Bachelard, il “senso della capanna”, un modo agreste di abitare il mondo.