Curata da Stefano Pezzato, si apre giovedì 6 settembre al Centro d’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. È la mostra Codice colore: opere dalla collezione di Alessandro Grassi, che rende omaggio a un grande collezionista e a un ampio ventaglio di forme d’espressione e di rappresentazione.
La mostra Codice colore intende ricordare Alessandro Grassi, industriale pratese, affermatosi a Milano con un’azienda di inchiostri tipografici e scomparso in Toscana nel 2009. Considerato fra i più significativi collezionisti italiani, a partire dagli anni Ottanta Grassi è stato uno dei primi sostenitori della Transavanguardia e un convinto fautore della pittura postmoderna e della fotografia contemporanea di area europea e americana.
Incentrata su una selezione di opere provenienti dalla collezione di Grassi oggi in comodato al Centro Pecci e integrata con prestiti dal MART di Rovereto e da privati, l’esposizione propone alcuni fra i maggiori nuclei della raccolta, rispecchiando interessi e criteri del collezionista, evidenziandone la predilezione per la pittura e la fotografia, basate su valori espressivi ed emozionali veicolati principalmente attraverso l’uso del colore.
Un percorso su tre sezioni con decine di grandi artisti
Il percorso si sviluppa in tre sezioni interconnesse fra loro: fotografia contemporanea – Transavanguardia e dintorni – pittura postmoderna e altro, individuate come capitoli salienti della raccolta e presentate come gallerie lineari di quadri che lo stesso Grassi allestiva a Milano fra gli anni Novanta e Duemila, che ricompongono nella mostra un insieme di opere unico e circolare adattato allo spazio sinuoso del museo.
Le opere sono di Bernd e Hilla Becher, Alighiero Boetti e Mimmo Paladino, Jonathan Borofsky, Sandro Chia, Sandro Chia e Enzo Cucchi, Christo, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Gino De Dominicis, Nicola De Maria, William Eggleston, Peter Fischli / David Weiss, Gilbert & George, Nan Goldin, Timothy Greenfield-Sanders, Keith Haring, Neil Jenny, Alex Katz, Joseph Kosuth, Armin Linke, Markus Lüpertz, Luigi Ontani, Mimmo Paladino, Thomas Ruff, David Salle, Salvo, Mario Schifano, Julian Schnabel, Cindy Sherman, Stephen Shore, Thomas Struth, Wolfgang Tillmans, Andy Warhol.
Transavanguardia
Il nucleo centrale della mostra è costituito da una serie di opere degli artisti della Transavanguardia, movimento promosso a livello internazionale tra la fine degli Settanta e gli anni Ottanta, contraddistinto come ritorno ad un’espressività soggettiva, attraverso il recupero di linguaggi e tecniche della tradizione artistica, con una predilezione per la figurazione e in particolare per la rappresentazione del corpo umano. Due tele (1979; 1980) dipinte da Sandro Chia sono caratterizzate dal dinamismo espressivo della pennellata e da immagini bucoliche impregnate di primitivismo ed esistenzialismo. Una piccola tela (1990) di Enzo Cucchi esprime il legame forte, simboleggiato dall’inserimento di una chiave, con il mito di Roma, città d’adozione dell’artista. Un originale dipinto su pietra (1982) di Francesco Clemente ritrae l’artista stesso in forma sfuggente, elusiva, errante come è il suo autore, trasferitosi in quegli anni a New York; l’incontro e il confronto con il contesto artistico americano è confermato anche dal volto dipinto su piatti (1981/1982) di Julian Schnabel che ritrae e omaggia Sandro Chia, anch’egli di scena a New York in quel periodo.
Di seguito, una tela poetica (2002) di Mimmo Paladino ripercorre il tema sacro e mistico della crocifissione cristiana associata a simbologie arcaiche su frammenti cromatici. Due tele di Nicola De Maria (1984-1985; 2001) presentano forme e composizioni liriche ricche di colori, brillanti di vivacità spontanea o dense di evocazioni interiori. Una tela (2003) dipinta da David Salle, protagonista della nuova figurazione americana dagli anni Ottanta, sperimenta nella pittura la connessione fra immagini e la simultaneità del montaggio filmico. A un’ibridazione fra generi e temi artistici tendono anche alcune piccole sculture in bronzo: quella a forma di carro (1989) di Mimmo Paladino evoca una cultura ancestrale, mentre la figura stilizzata (1991) di Sandro Chia e quella policroma (1990) di Markus Lüpertz esplorano plasticamente l’espressività di un’arte originaria, manierista o primitiva.
La fotografia come arte
A partire da un ritratto di Alessandro Grassi (2000) scattato da Timothy Greenfield-Sanders, rinomato fotografo di celebrità della politica, dello spettacolo e dell’arte paragonato a un pittore antico per la sua attenzione alla posa naturale, la mostra propone una “classica” archeologia industriale (1982) di Bernd e Hilla Becher, considerati i promotori del rinnovamento della fotografia come memoria dell’epoca moderna e tra i fautori della sua affermazione come arte; quindi uno scorcio indagatore della realtà urbana a Tokyo (1986) di Thomas Struth e una serie di ritratti obiettivi seppure anonimi (1986-1988) di Thomas Ruff, entrambi allievi dei Becher e protagonisti della cosiddetta Scuola di Düsseldorf.
Seguono un lavoro del primo soggiorno newyorkese (1994) di Wolfgang Tillmans, autore di un’indagine su fondamenti del medium fotografico come il ritratto e il notturno urbano combinati in questo scatto, e un autoritratto seriale (1983) di Cindy Sherman che trasforma in parodia fotografica, dominata dal viraggio cromatico, la bellezza femminile codificata dalla moda e dallo spettacolo o dalla grande arte. Ad essa fa da contraltare la vibrante “visione notturna” (2001) di Nan Goldin, immagine sospesa della notte newyorkese nel luogo e nell’anno del tragico attacco aereo alle Torri gemelle; sono presentate inoltre una veduta aerea (1992/2000) di Fischli & Weiss, che inquadra uno scorcio di Milano dal punto di vista inatteso e simbolico della Madonnina posta sulla sommità del Duomo, e una composizione fotografica (1988) di Gilbert & George, concentrata nell’autoriflessione esistenziale di una figura giovanile in primo piano davanti ad un incandescente puzzle urbano. Due scatti di strada (1973; 1999/2000) di William Eggleston e un’istantanea di viaggio nel deserto (1974/2003) di Stephen Shore, considerati fra i padri della fotografia d’artista e a colori, introducono uno “sguardo democratico” e un’attenzione alle periferie urbane americane e a territori artistici fino ad allora poco frequentati.
Completano la sezione incentrata sulla fotografia nella collezione di Alessandro Grassi le opere di due maestri dell’arte contemporanea: l’ingrandimento fotostatico di una definizione del dizionario (1968) di Joseph Kosuth, teorico dell’arte concettuale che in questo lavoro s’interroga sulla sua forma materiale e il suo senso profondo; e un porftolio di ritratti fotografici in bianco e nero (1980) di Andy Warhol, stella della Pop Art che rivolge qui la propria attenzione a volti celebri della mondanità internazionale presente in quel momento a New York.
In mostra è presente inoltre uno scatto (1999) realizzato da Armin Linke, autore di un’originale esplorazione della pratica fotografica che “inquadra” Alessandro Grassi fra le opere della sua collezione privata.
Pittura postmoderna e altro
La sezione dedicata alla pittura nella collezione di Alessandro Grassi è aperta da una grande tela iconica tricolore (1980), sorta di omaggio monumentale all’Italia di Mario Schifano, uno dei primi artisti italiani a inserirsi nella scena americana fra i New Realists di matrice Pop; accanto ad essa è proposto un dipinto (1978) di Jonathan Borofsky, immagine onirica associata dall’artista ad un flusso di coscienza continuo e ad un codice numerico occulto. Le due opere rappresentano gli emblemi, oltreché degli interessi pittorici di Alessandro Grassi, dell’asse artistico che lega l’Italia agli USA negli anni dell’affermazione della pittura postmoderna, in parallelo con il lancio della Transavanguardia. In dipinti successivi (1991; 1992) dello stesso Mario Schifano compaiono rielaborazioni di immagini attinte o ispirate dai mass media, in particolare il cinema e la tv.
In prossimità di questi quadri sono esposte una tela (1989) dipinta da Alex Katz, artista di matrice Pop che propone qui un volto ritratto in forma stilizzata ed a scala monumentale, quindi una tela (1997/1998) e due tavole (1995/1996) dipinte da Gino De Dominicis, autore enigmatico di ascendenza metafisica che rievoca con la pittura disegni di figure, sagome o teste dai tratti somatici appena accennati, sospesi nel vuoto del quadro fino a ribaltare l’immagine da positiva a negativa. In questi lavori di Schifano, Katz e De Dominicis prevalgono pochi colori piatti, stesi nettamente sulla superficie mentre i dettagli sono ridotti all’essenziale; si tratta di un’arte che tende a recuperare la dimensione familiare e allo stesso tempo sacrale dell’immagine raffigurata, come dimostrano anche l’ovale (1995-1996) dipinto da Luigi Ontani, d’ispirazione ibrida, esotica e cavalleresca, e la tela (1973-1976) dipinta da Salvo che riprende un’iconografia religiosa, antica e tradizionale.
La sezione espositiva comprende anche un’altra tavola (1987) dipinta da Gino De Dominicis, il cui soggetto apparentemente monolitico si combina con l’invisibilità paradossale del suo contenuto, e un disegno e collage (1972) di Christo, famoso progetto di Land Art dominato dal colore arancione.
Sono, questi, lavori che confermano l’allargamento della collezione di Alessandro Grassi a diversi esiti dell’arte, testimoniato anche da un dipinto (1970) di Neil Jenny, autore della cosiddetta Bad Painting che estremizza e combina ironicamente la figurazione Pop con l’essenzialità minimalista e l’analisi concettuale, da una tela (1983) di Keith Haring, astro internazionale della Street Art che ha affermato un originale linguaggio grafico lineare e fumettistico, ironico e socialmente impegnato, e da una tela (1964) di Andy Warhol, precursone della pittura postmoderna con la sua ricerca Pop influenzata dai mass media e incentrata su un’iconografia seducente e comune, pertanto universalmente riconosciuta.
In copertina
Composizione fotografica di Gilbert & George (1988)