«Signorina, le vorremmo proporre la possibilità, come volontaria, di fare un’assistenza domiciliare con una minore neomamma».
Rimango basita, euforica per l’opportunità, ma in ogni caso basita. Un conto è studiare sui libri dell’università approcci e metodologie, un conto è immergersi nella realtà. Fare il fatidico tuffo dalla teoria alla pratica.
«Ovvio che sì» rispondo, decisa a lasciarmi alle spalle dubbi ed esitazioni.
L’educatore che mi affiancherà per il primo giorno, facilitandomi l’incontro, mi porta in uno stabile popolare nella zona ovest del centro di Milano. Saliamo una rampa di scale malconce e trasandate, io stringo in mano una busta di carta con dentro un assortimento di cornetti ancora caldi, d’ogni qualità, nella speranza d’incontrare i gusti di quell’adolescente che a secondi mi apparirà davanti. Suoniamo ad un campanello che si fa ascoltare poco e aspettiamo.
Sono sulle spine.
Si apre l’uscio.
Capelli biondi. Lunghi. Alla schiena. Occhi azzurri. Enormi. Labbra carnose. Rosse. Figura esile e carnagione di porcellana.
Moto di tenerezza, subito, all’istante. Irrefrenabile.
«Distaccodistaccodistaccodistaccodistaccodistacco».
Lei sorridendo ci fa entrare, mi scruta ed io faccio altrettanto.
«Equador? Impossibile!»
Eccomi: bloccata dagli stereotipi cerco canoni riconoscibili e non ne trovo, lei mi spiega che nella parte centrale del suo paese sono tutte così.
« …tutte così nordiche?! Fantastico».
Inizio a fare domande dettate dalla curiosità e sempre da un pizzico di pregiudizio di fondo. No, il papà del bimbo non l’ha abbandonata, anzi. Lei è affidata dal Tribunale ai genitori di lui e pertanto vivono tutti insieme, in questa casa minuscola. E lui? Lavora. Si arrabatta per mantenerla. Un principe e la sua principessa.
Vagiti.
Mi ero dimenticata.
C’è lui, nella culla, lei lo tira su e me lo fa ammirare.
«Oddio. Un bambino».
Sono affascinata e terrorizzata.
«Che faccio?? Scappo?».
«Professionale fino al midollo osseo, oserei dire».
Resisto. Rimango. Lo guardo più attentamente dalla mia personale distanza di sicurezza. Mi sto laureando in Scienze dell’educazione, è vero, ma questo non fa di me un’adoratrice di infanti, e nemmeno l’essere donna mi aiuta. Non mi s’illumina l’utero di desiderio materno quando ho vicino un marmocchio o una gravida. Non mi esibisco in urletti o coretti da stadio quando li vedo sbranarsi le loro povere madri dal seno. Insomma, m’imbarazzano questi esseri e non so perché. Forse non so relazionarmi, sono troppo delicati, complessi, bisognosi. Lei mi spiega che dorme filato tutta la notte, non molesta nemmeno troppo durante il giorno, tranne per una fastidiosa gastrite che lo tormenta.
«Un miracolo direi io!».
Lo vestono con tutine comprate con i pochi soldi guadagnati dall’ometto o con quelli donati per i meno abbienti. Culla, seggiolone e box sono pensieri di chi l’ha presa a cuore, come insegnanti e operatori del Servizio sociale. Le pappe e i pannolini li ritira ogni mese, per i primi sei del nano, al “Centro aiuto alla vita”, un organizzazione generosa di CL che ha però dei dipendenti che non sai mai se ti guardano con rispetto perché non hai abortito o con disprezzo perché hai peccato fornicando.
Sull’autobus, di ritorno dal primo incontro, ripenso a queste cinque ore passate in quella casa. Ripenso a lei, sedici anni, mamma da sei mesi, incantevole e fragile, ma anche fiera e determinata a superare l’anno scolastico, nonostante gli ovvi problemi sopraggiunti. E poi c’è lui: la mia bestia nera, sei mesi di bave trasparenti, pappe, cacche radioattive, pianti immotivati. Eppure c’è qualcosa, un moto ondoso che mi sospinge verso quest’incognita. I suoi occhi vispi e attenti, fissi sui movimenti di quella baby mamma che si ritrova. L’amore emanato da quegli sguardi, dà quasi l’idea che non amerà mai nessuna donna come ama lei. Sono un mondo a parte, legati da quella connessione propria del cordone ombelicale.
Nei mesi successivi penetro in questo loro rapporto, timorosa di sporcarlo, invaderlo senza diritto. Invece loro mi accolgono: aprono l’abbraccio che li stringe e piano piano fanno entrare anche me. Impariamo insieme a coesistere: insegno alla bimbetta a prendersi dei momenti per sé, a non trascurarsi, a mangiare con regolarità e in modo sano, senza saltare i pasti. Mi accorgo che cose così basilari, quasi scontate, in questi lavori di assistenza domiciliare, entrano in gioco prepotentemente, non vanno trascurate, bisogna reintegrarle giorno per giorno per ridargli il valore della quotidianità, persa per forza maggiore, per cedere alla cura e all’abnegazione per quel nano che è sangue del suo sangue.
La mattina non faccio mai colazione a casa, ma aspetto di farla con lei, insieme, perché non se ne dimentichi, presa da pappe e cambi. Ci confrontiamo molto io e la bimbetta. Lei mi vede sempre più come un’alleata e allora si apre, mi racconta, e io la vedo per quella che è: lontana dalle sue stupide e superficiali coetanee, con pensieri e ragionamenti che s’innalzano all’età adulta. Parliamo della scuola, di come a volte il senso di emarginazione non l’abbandoni mai, nonostante sforzi e successi. La professoressa che la bistratta e le fa scontare un’assurda persecuzione in nome di chissà quale colpa. Ottime interrogazioni che hanno sempre esito mediocre su quel registro. Le spiego che invidie e frustrazioni si palesano e si sfogano su chi non può in alcun modo difendersi. La sua posizione subordinata di studentessa la rende dunque prelibato bersaglio.
Le dico: «Sopporta con superiorità. Questa donna magari non è in posizione orizzontale con un uomo da molto tempo, e se sei riuscita a sopportare nove mesi il nano malefico, questa in confronto, è una passeggiata».
Lei ride. Rincuorata. Io dissimulo con una battuta l’insofferenza che provo per una persona così abietta. Ma fare il lavoro che faccio non mi permette di prendere provvedimenti in merito, non sono nessuno per scalpitare, andare da queste persone e chiedere spiegazioni. Un volontario non è niente, né sulla carta, né tanto meno di persona. Allora mi accontento di fare l’alleata a spada tratta.
«E il nano? Il nostro rapporto?».
Inizialmente ci annusiamo, diffidenti, ci giriamo intorno, o almeno lo faccio io, e poi via: inizio a fare facce buffe, così, tanto per sperimentare. E lui gradisce, ride. Mi diverte. Non è poi così male, sdentato come si ritrova.
Poi, non so dopo quanto tempo, arrivo a casa loro, come sempre, con cornetti alla mano. Due, uno vuoto e al cioccolato, il secondo per lei. Ho imparato per fortuna, senza più dover svaligiare il bar, ogni volta nel dubbio. Il nano è indaffarato a sbavare un giochino, spaparanzato sul suo seggiolino, non mi ha notata, non sono ancora nel suo campo d’interesse. Poi si gira. Mi vede. E, cazzo, il suo viso, i suoi lineamenti, mi dicono che mi ha riconosciuta. Riconosciuta. Come si fa a spiegare quell’espressione? Ed è felice che io sia lì. Molla il gioco, allunga quelle manine grassocce verso di me, con gli occhi e la bocca sorride, SORRIDE. Senza l’ombra di un dente, sorride. Disarmante.
«Che colpo basso nano, da te mi aspettavo più correttezza, miseria! Sei o non sei un gentiluomo?».
Penso questo e intanto le mie gambe si muovono da sole, le braccia pure, lo prendono, lo sollevano, lui gorgoglia divertito. Lo annuso. Che buono. Lo mangerei. Lo bacio. E me lo rimangerei. Lui mi accarezza impacciato. Mi tocca e tira i capelli. Sono suoi, glieli cedo per questa volta. E da lì sono tutta uno zucchero, pernacchie e versi degni del nano stesso. Scimunita. In soldoni. Il mantra del distacco è un eco lontana, io dimentico principi e valori della dottrina educativa e mi butto in questa tenerezza mai provata.
In una giornata assolata al parco, lei si confida e mi dice che quando scoprì di essere incinta, decise da subito di abortire. Ufficializzato il tutto e preso appuntamento con l’ospedale, iniziarono i dolori. Mischiando italiano e spagnolo, addolcendo con questo miscuglio di lingue le parole, continua e dice che sapeva, sebbene fosse pazzesco, che lui si stava ribellando a quella decisione. Nel suo cuore di adolescente lo sapeva con certezza. E nonostante questo, lei, cocciuta, si è presentata per l’operazione, ma con ormai camice addosso e dolori al bassoventre, ha girato le spalle a paure e dubbi ed è andata via. Appena fuori, il nano, vittorioso, si è ritenuto abbastanza al sicuro da smettere di tediare la sua giovane mamma. E questa per lei è stata la risposta in più che cercava. Tutti contenti? Per niente. La madre della bimbetta era pro-aborto, of course. E per niente addolcita dal racconto sopracitato, ha indicato la porta alla giovane gravida e se n’è lavata le mani. Ora rivendica il patrocinio nonnastico. Dà consigli spassionati su intrugli anti-gastrite, febbre alta, arrossamenti del santo culetto. Insomma, alcune non sono per niente brave come madri ma è possibile che almeno come nonne si riscattino. O almeno si spera. Se così non fosse, sarà un altro inconveniente a cui la bimbetta si approccerà a spalle larghe. Sento il coraggio che trasuda da ogni suo gesto, fierezza di non essere tornata indietro, appagamento per l’amore che questa decisione ha scaturito. È bimba e donna, adolescente e mamma, è double face. Questi dualismi la rendono splendente ai miei occhi, una Vergine Maria, ma molto più spirituale.
Il fatidico giorno del recupero delle materie a scuola, l’accompagno. È un’interrogazione su tutti gli argomenti scelti da ogni professore. Tra i presenti si nota subito lo schieramento di chi stima questa giovane mamma e di chi semplicemente se la vorrebbe levare dalle palle per chissà quale motivazione. Io siedo in fondo alla classe, sguardo da mastino, pronta a sbranare chiunque. Lei si siede composta davanti ogni professore, risponde alle domande con più o meno sicurezza, gettandomi sguardi d’approvazione. Arriva al gruppetto delle vipere, che se davano loro una cesta sarebbero state più comode, e quelle iniziano una serie di domande volte solo a metterla in difficoltà, lei mi guarda, occhi disperati e pieni di lacrime. Io la fulmino con lo sguardo
«Non ti azzardare, sai?!».
Lei deglutisce, torna a guardarle e a fare quel che può. Una volta finito il tutto, rimaste sole e in attesa del verdetto, lei piange e mi dice che in quegli istanti si sentiva come su di una zattera in balìa del mare. Ma che vedermi seduta lì per lei, le ha dato il coraggio di non dare soddisfazione a quelle stronze, nonostante fosse prossima alle lacrime. È bello sentire che condividiamo, dopo soli pochi mesi, questo affiatamento.
Quando non siamo impegnate a studiare le materie che deve recuperare, partiamo tutti e tre, armati di bavaglia, biberon, pappetta per lo spuntino del nano, pappetta per il nostro spuntino, acqua, passeggino, cappellino, sciarpina, ciuccio, insomma un arsenale, alla volta degli uffici milanesi, per espletare pratiche, richieste di sussidio, aiuti economici, case popolari, tessere sanitarie, passaporti, permessi di soggiorno, rette della materna, libri di suola, ISEE, disoccupazione, e chi più ne ha più ne metta. Ogni volta usciamo sfiancate, invidiose del nano che beato dorme nel passeggino da praticamente cinque minuti dopo essere entrate nel primo ufficio della lista. La burocrazia ci toglie la vitalità: è labirintica e dispersiva, incomprensibile. Allora noi ci guardiamo, ci tappiamo le narici e ci tuffiamo nelle sue paludi mefitiche. Siamo diventate bravissime. Espertissime. Loro pensano di demoralizzarci, ma noi siamo coriacee. Due eroine dal mantello scintillante in posa tra le porte spalancate degli uffici. Con il nano come mascotte vestito in maniera improponibile ma comunque scintillantissimo anche lui. Se ci fanno aspettare più del dovuto lo facciamo scattare in azione: pianto petulante e, tutti, nessuno escluso, sbrigano pratiche da bradipi in attimi, pur di non averlo nei pressi delle orecchie. Quando vuole sa essere una vera sirena dei pompieri.
Imparo tantissimo da queste missioni. Imparo come il cittadino debba farsi uno sbattimento fotonico per due pezzi di carta in croce. Come la burocrazia incasini cose altrimenti semplicissime. Come il tempo per avere qualcosa, di cui magari necessiti nell’immediato, non passi mai perché lo rendono lunghissimo, lentissimo. Sono diventata paziente come un buddhista. Pratico yoga agli sportelli.
Sono passati i mesi, io sono una volontaria, educatrice, ma comunque volontaria e questo mi rende temporanea, determinata, molto poco determinata; il mio lavoro ha la data di scadenza, sono come un cartone di latte, e più mi avvicino al fatidico giorno più è difficile mantenere l’integrità dei sentimenti, più mi è difficile creare il distacco che si confà a questa professione. Quando ho iniziato la mia esperienza nel volontariato non pensavo che ci avrei rimesso il cuore. Non pensavo che sarebbe stato così sentimentalmente difficile. Ma mai e poi mai baratterei tutto questo con qualsivoglia lavoro ben pagato. Timbrare il cartellino, non fa per me. Tornare a casa senza pensieri non fa per me. Con la scelta del volontariato ho voluto regalarmi un percorso di solidarietà, mi sono concessa un viaggio senza partenze, su di una strada che da me va verso gli altri. L’ultimo giorno con loro è stato difficile, ma dovuto; ci siamo tenuti per mano giusto il tempo necessario per imparare a camminare in autonomia. Vedere entrambi crescere, migliorarsi, progredire al mio fianco mi ha fatto tornare a casa la sera soddisfatta, piena di gioia. E di certo non scorderò mai le mani paffute e gli occhi curiosi di quel dolce nanetto che via via mi ha fatto entrare nella sua vita riconoscendomi parte del suo mondo ogni giorno di più. Non sono solo io ad aver dato qualcosa a loro, anzi, sono stati loro due a fare un regalo a me, sono stati loro ad educare me, al coraggio e alla forza di volontà che travalica qualsiasi ostacolo e pregiudizio, e questo non si guadagna con nessuna busta paga ben gonfia. Ora lei ha l’ultimo anno del triennio e il nano va alla materna. Io non servo più, io rimango impressa nelle foto fatte insieme, nelle cose insegnate. Rimango nella ninna nanna che faceva addormentare il nano all’istante, nonostante fosse una canzone abbastanza volgarotta di Federico Salvatore. Nelle ricette delle maschere per il viso consigliate alla bimbetta. Nelle lotte sul letto tra tutti e tre, senza esclusione di colpi e bavette.
Loro, da parte mia, si sono conquistati, a pieno diritto, un posto nei miei ricordi, dove hanno lasciato un’impronta indelebile.