Ha rimediato una tela, leggera, in testa, senza farsi male e finendo sulle agenzie di stampa di mezzo mondo. Ha portato a Firenze, ed è quello che conta, la sua storia artistica, dalla fine degli anni Sessanta a oggi. Marina Abramović è protagonista da qualche giorno a Palazzo Strozzi, in pieno centro fiorentino, con le immagini che ne hanno caratterizzato la carriera. L’artista serba, naturalizzata americana, sarà protagonista a Firenze fino al 20 gennaio. Tempo per scoprirla, riscoprirla o conoscerla meglio ce n’è in abbondanza.
La retrospettiva italiana di Marina Abramović
Palazzo Strozzi ospita infatti la prima grande mostra retrospettiva italiana dedicata a Marina Abramović, una delle personalità più celebri e controverse dell’arte contemporanea, che con le sue opere ha rivoluzionato l’idea di performance mettendo alla prova il proprio corpo, i suoi limiti e le sue potenzialità di espressione. L’esposizione nasce dalla collaborazione diretta con l’artista, proseguendo così la serie di mostre che stanno portando a Palazzo Strozzi i maggiori rappresentanti dell’arte contemporanea a livello globale, come Ai Weiwei (2016), Bill Viola (2017), Carsten Höller (2018).
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100 opere per The Cleaner
L’evento si pone come una straordinaria rassegna che riunisce oltre 100 opere dell’artista, offrendo una panoramica sui lavori più famosi della sua carriera, dagli anni Sessanta agli anni Duemila, attraverso video, fotografie, dipinti, oggetti, installazioni e la riesecuzione dal vivo di sue celebri performance da parte di un gruppo di performer specificatamente selezionati e formati in occasione della mostra.
Per la prima volta una donna sarà protagonista assoluta di una mostra di Palazzo Strozzi. Marina Abramović ha raccolto la sfida di utilizzare il palazzo rinascimentale come luogo espositivo unitario, unendo Piano Nobile, Strozzina e cortile, confrontandosi con un contesto unico e ricco di sollecitazioni. Il lavoro di Marina Abramović ci parla di ricerca e desiderio di sperimentare la trasformazione emotiva e spirituale. Come ricorda l’artista, il titolo dell’esposizione, The Cleaner, fa riferimento a un particolare momento creativo ed esistenziale, ad una riflessione dell’artista sulla propria vita: «Come in una casa: tieni solo quello che ti serve e fai pulizia del passato, della memoria, del destino».
Una riflessione su una lunga carriera
Con questa mostra riflette sulla propria lunga carriera in un luogo speciale come Palazzo Strozzi, e proprio in Italia, un paese che ha un significato importante nella biografia e nell’evoluzione del suo percorso artistico. La mostra diviene una straordinaria occasione per scoprire la complessità dell’arte di Marina Abramović, i cui lavori spaziano da azioni forti, violente e rischiose a scambi di energia gestuali e silenziosi, fino a veri e propri incontri con il pubblico, che negli ultimi anni è diventato sempre più protagonista nelle sue opere.
La mostra e la voce dell’artista
L’esposizione – in cui per la prima volta sarà la voce dell’artista ad accompagnare i visitatori nell’innovativa audioguida – ripercorre le principali tappe della carriera dell’artista che esordisce giovanissima a Belgrado come pittrice figurativa e poi astratta. Di questa produzione sono esposte opere inedite come l’Autoritratto del 1965 e i dipinti delle serie Truck Accident (1963) e Clouds (1965-1970) in cui si ripetono ossessivamente violenti incidenti di camion e nuvole quasi astratte, lasciando già intravedere la tensione di un’arte che va verso l’immaterialità e che pone il corpo umano come elemento centrale della sua ricerca. È negli anni Settanta che inizia il lavoro nella performance attraverso l’utilizzo diretto del proprio corpo, come testimoniato in mostra da opere come la serie Rhythm (1973-1974) e Thomas Lips (1975) in cui l’artista si espone a dure prove di resistenza fisica e psicologica, Art Must Be Beatiful/Artist Must Be Beatiful (1975), dove, nuda, pettina i propri capelli fino a far sanguinare la cute, o The Freeing Series (Memory, Voice, Body, 1975), nella quale mette alla prova la capacità di resistenza individuale attraverso estenuanti azioni ripetitive di parole, suoni e gesti. Nel 1975 conosce l’artista tedesco Ulay con cui nasce un rapporto sentimentale e professionale il cui simbolo è il furgone Citroën in cui i due hanno vissuto, viaggiando incessantemente in Europa per tre anni e che sarà esposto nel cortile di Palazzo Strozzi. Insieme creano celebri performance di coppia come Imponderabilia (1977), dove il pubblico è costretto a passare attraverso i corpi nudi dei due artisti come fossero gli stipiti di una porta, e che viene interrotta dalla polizia, o azioni come Relation in Space (1976) e Light/Dark (1977) e in cui sperimentano l’incontro/scontro tra energia femminile e maschile. Negli anni Ottanta Marina e Ulay intraprendono viaggi di ricerca e studiano le pratiche di meditazione in Australia, India e Tailandia. Ne nascono opere come Nightsea Crossing (1981-1987), in cui rimangono immobili l’uno di fronte all’altra per ore, e Nightsea Crossing Conjunction (1983), in cui vengono messe in contatto le culture aborigena e tibetana. La fine della loro relazione sentimentale e professionale si celebra nel 1988 con la performance The Lovers (1988) dove i due artisti si incontrano per dirsi addio a metà della Grande Muraglia cinese, dopo aver percorso a piedi duemilacinquecento chilometri ciascuno, partendo lei dall’estremità orientale e lui da quella occidentale. Negli anni Novanta il dramma della guerra in Bosnia ispira l’opera Balkan Baroque (1997), con cui Abramović vince il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, del 1997, che diviene metafora contro tutte le guerre: all’interno di un buio scantinato l’artista pulisce una ad una mille ossa di bovino raschiando pezzi di carne e cartilagine mentre intona canzoni della tradizione popolare serba. Legate al mondo balcanico e alle proprie complesse dinamiche familiari sono inoltre presentate in mostra opere come The Hero (2001) dedicato al padre, eroe della resistenza, o il controverso ciclo Balkan Erotic Epic (2005). Parallelamente Abramović porta avanti una ricerca sulle tematiche di meditazione e trascendenza che trovano espressione nei Transitory Objects (1995-2015): non sculture, ma strumenti per viaggi interiori, realizzati con materiali come il quarzo o l’ossidiana, dotati di una particolare carica energetica. Col passare degli anni la sua arte performativa, effimera per definizione, si dilata nel tempo: dalle poche ore delle performance degli anni Settanta a The Artist is Present (2010), in cui al MoMA di New York, muta e immobile – per più di settecento ore nell’arco di tre mesi – ha fissato milleseicentosettantacinque persone che si sono avvicendate davanti a lei, sottolineando così il valore di una comunicazione energetica e spirituale tra artista e pubblico come elemento fondamentale del suo lavoro.
Segue nei prossimi giorni