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E vissero per sempre felici e contenti (Valentina Nastasi)

É vero: abbiamo vissuto per sempre felici e contenti. Dove “per sempre” è da leggere come “fin quando tu non te ne sei andata”.

Il nostro è stato un “per sempre” piuttosto breve, rispetto alla normale vastità del concetto, ma in effetti è stato anche un “per sempre” lungo: dieci anni, lunghi a loro modo perché in ogni mese insieme abbiamo creduto che fosse arrivata la fine. E tutto questo era quanto di più bello potessi sperare, anche se in realtà non era una cosa che avevo mai sperato prima. Prima di te.

Ogni mese, ogni giorno, per essere precisi 3.653 giorni, ci siamo amati con la consapevolezza che quel momento poteva essere l’ultimo, ma senza angoscia, anzi, con un fuoco dentro che non si è mai spento, e tu sai di cosa parlo, quel fuoco che ti brucia nel petto, nello stomaco, sotto la pelle, diciamo pure ovunque, quando incontri qualcuno che sai che devi avere vicino, che sai che devi tenerti vicino, e per quanto tempo farlo, incredibilmente, diventa secondario, scompare, perché il tempo stesso si dissolve, perché in un istante vi state già amando, in un minuto siete già sposati, in un’ora vi siete reincarnati almeno altre due volte. Quando hai incontrato quel qualcuno l’hai provato ed io lo so perché me l’hai detto, lo so perché quel qualcuno sono io.

Sono io che ti ho portata con me in questi dieci anni, ti ho abbracciata, a volte anche troppo forte, e ho contato ogni giorno i minuti passati insieme, e quindi tutti i matrimoni a cui abbiamo partecipato come sposi, ogni volta diversi; li ho contati perché sapevo che avrei dovuto tenermeli stretti quando tu te ne saresti andata. Anche se mi pregavi di non andare via io, anche se ti ho pregato di non andartene io, sapevo, in fondo a me stesso, nella parte dove si vanno a nascondere tutte le nefandezze delle nostre anime, che tu un giorno te ne saresti andata.
E io mi ero giurato, ti avevo giurato, di odiarti con tutte le mie forze se tu l’avessi fatto, di cancellarti da ogni angolo della mia vita, della nostra casa, dei pensieri, dei desideri, dei ricordi, dei sogni, sapendo che non ci sarei riuscito, ma l’avrei fatto comunque, perché è questo quello che deve fare ogni essere umano: andare avanti. Purtroppo. Io credo invece che ad alcune cose semplicemente non bisognerebbe sopravvivere. Che ci sono dei dolori morali, dei dolori emotivi, mentali, a cui non dovremmo in alcun modo sopravvivere. Sopravvivere perché? Per evolverci, per migliorarci, per continuare a sperare in un domani. Ma se io non volessi? Se io non voglio più sperare in un domani, migliorarmi, evolvermi da quando te ne sei andata, perché devo restare?

Ma mi hanno insegnato a farlo, me lo hanno inculcato così profondamente nella testa, me l’hai inculcato tu così profondamente dentro, che adesso devo farlo. Anche se so che è questo il motivo per cui tu non ci sei più.
Per cui tu, nonostante io abbia cercato di curarti e guarirti e coltivarti come il migliore dei miei fiori, quale tu sei, quale tu sarai sempre, per cui tu ora sei morta.

Morta. Morte. Una cosa che non temo più. Che ho temuto, fintanto che ero con te, che ho temuto per te, quando mi facevi promettere che io non sarei morto per primo. Quando sussurravi al mio fuoco di bruciare per scaldarti e lui lo faceva, perché non sapeva fare altro accanto a te, e tu mi baciavi le spalle e piangevi. Quando, incapace di annodare i nostri sogni insieme ad anni troppo lontani, li osservavo mentre ti scivolavano via dalle dita.
E tu credo che non lo sappia, ma li ho raccolti tutti quanti e li conservo in quella scatola di legno intagliato sul comodino, quella che avevi comprato solo perché era bella, ma poi era sempre rimasta vuota. Ecco, ora è piena. In realtà è sempre stata piena. Di tutti i desideri che non avevamo ancora potuto realizzare. Di tutti i desideri che non realizzeremo mai. Di tutti i desideri che ormai conosco a memoria perché ogni giorno, da quando te ne sei andata, li sfoglio e lascio che mi taglino le dita.

E di giorni ne sono trascorsi molti di più del nostro “per sempre” insieme, almeno 12.900, ma non sono sicuro di questo numero quanto sono sicuro di quello dei giorni in cui abbiamo vissuto di calore e vicinanza. Perché hai deciso tu, hai scelto tu di lasciarmi nel nostro giorno, di chiudere il “per sempre” lì dove era iniziato. E io, ancora una volta, ho annuito alla tua decisione, mi sono messo in ginocchio di fronte alla foto della tua lapide e ti ho portato delle orchidee. Proprio come quando ti ho detto per la prima volta che ti amavo, l’ho fatto tremando, l’ho fatto senza sapere cosa sarebbe accaduto dopo.
E la prima volta è accaduto tutto. L’ultima, invece, non è successo niente. Perché continuo a vivere con te, ma senza di te. Senza la tua voce, senza il tuo profumo, senza il tuo calore. Senza.

Ho imparato subito che la morte è proprio questo: senza. Privazione, mancanza di qualcosa che prima c’era e ora non c’è più.
Ho imparato invece solo ora, ora che anche io sto diventando sempre più freddo, che era proprio questo che non potevi accettare, che per quanto tu abbia lottato non hai potuto accogliere in te, che non hai potuto aspettare che accadesse: il senza, la mancanza di calore, il freddo. Il raffreddarsi del mio fuoco.

Ed è per questo che hai spento prima il tuo, è per questo che hai messo fine al nostro “per sempre”.
Vero?

 

Valentina Nastasi

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