Come ogni mattina, alle ore 7:00, Svevo inizia la sua avventura per recarsi al lavoro e come ogni mattina, dalle ore 7:00, Svevo cerca di coniugare puntualità e calma, due grandezze che in una città come Roma non vanno quasi mai d’accordo. Ci crede, Svevo, questa volta sente che potrà farcela. Si immagina già di varcare la porta d’ingresso dell’ufficio, alle 9:00 spaccate, anzi meglio alle 8:55, rilassato e sorridente.
Con questa profonda determinazione, si lancia nella bolgia da inferno dantesco che è Roma di prima mattina. Oggi però piove e la strada sembra davvero l’immensa palude Stigia, con tombini ribollenti e sampietrini divelti. Si inizia bene.
In questo acquitrino, si manifestano due stili diametralmente opposti di automobilisti: l’iracondo e l’accidioso, in preda ai loro sentimenti che si alimentano vicendevolmente in un turbinio di insulti e indolenza. Non mancano poi i superbi in motorino, con i loro spavaldi sorpassi, detentori per diritto della prima fila agli incroci, incuranti della pioggia e sprezzanti dei semafori. In mezzo, sonnacchiosi taxi-Caronte fanno la spola nel lungo viale-Acheronte. E in mezzo a questi poveri diavoli, condannati allo stress prima ancora di mettere piede a lavoro c’è Svevo, compartecipe dello stress e povero diavolo più di loro. Niente macchina quindi, meglio il bus con la sua corsia preferenziale.
Fermata fortunatamente sotto casa ma bus sfortunatamente sotto assedio.
Decine di pendolari già in attesa ma l’autobus, quando arriva, è già strapieno. Tra urla e spintoni, denunce annunciate e violenze promesse, quasi tutti riescono a salire. Quasi. Urgono altre e vincenti opzioni. Taxi? È un gioco a somma zero, l’intera giornata di lavoro non basterebbe a coprire le spese. Uber? Magari è comodo a San Francisco, non qui.
Idea folle. Svevo si precipita a casa e punta lo scatolone dei doni natalizi, cimitero di regali di dubbia bellezza e improbabile utilità. Tra la lampada-coniglio della zia Maria e il portafoto con Babbo Natale che gioca a briscola con la renna, eccolo che appare: il cappello-ombrello, Natale 2013. Basta una rapida occhiata allo specchio per capire che l’apporto serioso della cravatta non può scalfire il contributo ridicolo del cappello. Anzi.
Ma Svevo non molla. Più o meno 3 km e un’ora e mezza di tempo. Si può fare. Il viaggio assume i contorni dell’epopea, del romanzo epico, tra mostri infrastrutturali e azioni piratesche. Lungo la strada gli sguardi dei passanti si alternano tra ilarità e commiserazione, una bambina punta il dito e chiede alla mamma di quella “strana cosa” che è Svevo. Al primo km è già totalmente inzuppato, non di pioggia ma di sudore. La strada è pesante, per lui. I sampietrini sono duri da affrontare e i marciapiedi sono stretti e scomodi. Adesso non piove ma più ci si avvicina al centro storico, più la città è congestionata. Sarà la stanchezza ma per Svevo i gradini sono montagne da scalare e i parcheggi selvaggi muri invalicabili. Mancano 10 minuti alle 9:00 ma il traguardo è lì, al di là della strada.
A un passo, si direbbe, se non fosse per l’assenza dello scivolo. La mente di Svevo ormai registra in automatico la dislocazione degli scivoli nelle zone che frequenta abitualmente ma la sua società si è trasferita da poco e lui ha peccato di superbia: non ha ancora fatto il necessario giro perlustrativo domenicale. Che si fa quindi? Svevo ci crede. Non può lasciare, non così vicino al traguardo e dopo tutta questa fatica. Allora indietreggia, si prepara e via!
Ancora oggi, a distanza di anni, i presenti ricordano perfettamente quel giorno in cui un uomo, meglio un eroe o forse una leggenda, prese la rincorsa e si lanciò. Ricordano tutti la sua sedia a rotelle che brillava, in aria, ai primi raggi di sole post pioggia. Ricordano tutti quello strano copricapo, degno di un supereroe, sicuramente una dotazione aerodinamica d’alta tecnologia per quel volo maestoso. Ricordano tutti quell’uomo attraversare la porta di un grande palazzo. Erano le 8:55.
Daniele Foderà