«E via, anche questa è fatta. Ti farò vedere io, bastardo d’un topo schifoso. Sempre dovrò azzuffarti, prima o poi, vedrai!» – dice il vecchio Ernesto piazzando l’ennesima trappola che ha preparato per acchiappare quel topo che ormai lo sta facendo impazzire da diversi giorni.
Immancabilmente ogni mattina nota sul tavolo del tinello un po’ di pagliuzza bianca e tante piccole cacature, segno che il malefico roditore vi ha per un po’ “soggiornato”. E quel che è peggio, la trappola tesa non è scattata: il fermo che permette lo scatto, infatti, è stato magistralmente disinserito dal suo occhiello senza che nella gabbietta vi sia rimasto qualcosa. Si, neanche quel poco di formaggio che con tanta cura Ernesto vi ha intromesso e depositato e che occorre come esca!
«Io voglio sapere come fa quel topaccio della malora a rubare il formaggio e ad andarsene tranquillo e beato!», si chiede il vecchio pieno di costernazione.
«Ah, ma io non te la do per vinta, sai, dovessi alzarmi tutte le notti apposta per te!».
Ernesto vive da solo in una vecchia casa al centro del paese dove lo conoscono un po’ tutti. Adesso è in pensione dopo aver lavorato per tanti anni in un grande pastificio al reparto confezioni. Ogni tanto gli fa visita qualche parente che “gli arreca soltanto noia e inquietudine”, come egli stesso ama dire. In effetti, fra tanti parenti che ha, nipoti, pronipoti, cugini, nessuno mai si degna di trascorrere con lui qualche ora se non quando la sua persona serve per qualche loro interesse, specie quando si avvicina il giorno per riscuotere la meritata quanto striminzita pensione!
«É meglio vivere da solo e felice che in compagnia di questi avvoltoi!», pensa con un certo realismo anche se, conseguentemente, deve ammettere che la solitudine è lo stato più brutto e angosciante in cui un uomo si può venire a trovare. In un certo senso, quindi, la presenza del topo in casa, se da un lato gli da quella preoccupazione e quel fastidio ch’egli prova con profonda rabbia, dall’altro è per lui motivo stesso di rassegnata compagnia e d’intima unione d’intenti anche se l’animale, per ovvie ragioni e necessità, si reca all’ormai incontro quotidiano soltanto per un interesse egoistico dettato dalla fame che ha.
E’ ormai una settimana che Ernesto da la caccia al topo, da quando cioè si è accorto una mattina che sul tavolo del tinello una fetta di pane è stata sbriciolata e che, mischiate tra le molliche, c’erano anche tante cacature. Da quel giorno, allora, non ha avuto che un pensiero fisso: acchiappare quel sorcio!
E’ arrivato al punto di alzarsi nel cuore della notte e di starsene immobile lì in cucina riducendosi un pezzo di ghiaccio pur di notare qualche sua mossa che lo tradisse in qualche maniera; invece niente, assolutamente niente! Dopo ore e ore di snervante quanto inutile attesa, ha desistito per l’ennesima volta alla sua cattura pensando che forse quella bestiaccia ha trovato qualche altro posto migliore in un punto della sua abitazione e del tinello in particolare e che quindi non si sarebbe fatto più vivo.
Invece, il mattino seguente, il solito e triste spettacolo attende alla vista del povero Ernesto.
Ma egli veramente non si da mai per vinto, non è mai preso da disperazione anzi, più gli viene offerta la possibilità di combattere e più lui, con la sua semplicità e ignoranza, cerca nuovi pretesti, nuove vie, nuove armi per affrontare la battaglia.
Ormai si è organizzato alla meglio, procurandosi tutto il necessario per la cattura del topo: collanti speciali, reti di ogni genere con le quali egli stesso fabbrica le trappole, formaggi di ogni tipo di cui se ne trovano in commercio e veleni in quantità! Si è perfino comprato un libro dal titolo emblematico: “Come eliminare i topi dalle abitazioni”. Lo tiene sempre a portata di mano e lo legge come se fosse un testo sacro, con minuziosa attenzione e riverente ossequio. E’ arrivato al punto di sapere tutto o quasi sui roditori e crede sinceramente di essere diventato, alla sua maniera, uno studioso di questi essere immondi.
Ma nonostante tale zelo ch’egli mette in questo suo operare, non riesce comunque a vincere. Si sente deluso, afflitto in questa condizione e sogna perciò ad occhi aperti il giorno in cui il topo non riuscirà, suo malgrado, a farla di nuovo franca. Ed allora sarà grandissima la sua felicità, la sua contentezza!
Però, in un certo senso anche il topo, pensa Ernesto, in cuor suo dev’essere infelice, dal momento che ogni giorno sente il bisogno di uscire allo scoperto, di rendersi visibile, in quanto non accetta la sua condizione che è appunto quella di starsene rintanato e sentire il mondo sopra di lui che si muove! D’altra parte anche il topo, come lui, ha questa forza interiore che lo spinge a combattere comunque e a non arrendersi mai davanti alle pur evidenti difficoltà, a rischiare addirittura la propria vita, in un certo senso la propria reputazione, pur di arrivare alla meta, al fine che si è prefisso.
E un altro fatto importante Ernesto nota nel contesto della “lotta” che lo vede contrapposto al sorcio: la povertà di quest’ultimo, che è molto differente dalla sua!
Lui si sente povero nel vero senso della parola, indigente in tutto. La sua vita è stata scarna in pienezza, ricolma di sacrifici e di rinunce continui di qualsiasi tipo. Non ha studiato, al contrario, ha sempre lavorato facendo i mestieri anche più umili. Non ha mai goduto di una certa considerazione da parte degli altri, perché ritenuto debole, umile appunto, povero! Eppure, dentro di sé, egli si sente forte e gioioso nella sua debolezza ed è proprio il primato di questa povertà, di questa indigenza, di questa speranza sul possesso, sulla forza, sulla ricchezza che provoca nei suoi interlocutori, specialmente tra gli stessi parenti, un certo fastidio, una certa rabbia!
Al contrario, la povertà del topo lui la vede come una forma di celato protagonismo. In altre parole, egli pensa che il topo vuole essere protagonista nascosto della sua stessa povertà! Ecco perché non si fa mai vedere in presenza di qualcuno, lasciando invece le tracce evidenti per far capire e pensare della sua esistenza!
Quindi questa è una povertà dettata dalla superbia, dalla presunzione, dal non volere essere sottomessi, ma con gioia, alla propria condizione. Da questo punto di vista risulta emblematica la scelta del topo di uscire fuori dalla tana per andare in cerca di cibo in una casa d’un povero disgraziato, modestissima e fatiscente!
Come dire, in una sorta di guerra tra poveri!
Adesso i giorni sono dodici da quando Ernesto ha iniziato, invano, la caccia la topo. Ultimamente ha cambiato anche strategia: come esca, infatti, non usa più un pezzetto di formaggio, di cui il sorcio evidentemente ne è ghiotto talmente ne ha mangiato, bensì una mezza fetta di mortadella sulla quale ha sparso delle briciole di pane. Spera, con tale sistema, di poter abbindolare l’animale facendogli gustare del cibo nuovo per cui, data la sorpresa, può essere che rimanga di più nella gabbia e inavvertitamente faccia scattare l’insidioso congegno!
Questa notte non si è alzato, tanto lo sa che il topo non si sarebbe fatto vivo. Ma nel letto trepida, immaginando già la scena: la bestiolina che si affaccia dal suo “buco”; si accorge che effettivamente non c’è nessuno e quindi con un rapido susseguirsi di tanti piccoli balzettini si porta vicino al piede del tavolo. Qui si ferma per un altro veloce controllo della situazione e quando capisce che tutto è perfettamente tranquillo, si arrampica in verticale sul piede tarlato del tavolo e giunge fino a dove è sistemata la trappola. A pochissimi centimetri da essa si ferma di nuovo, da un rapido sguardo per studiare il meccanismo e via, pian piano a entrarvi dentro con la massima delicatezza e leggerezza. A questo punto avverte un odore e un profumo diversi dalle altre volte. Indugia un pochettino, poi col musetto annusa la mortadella, gli piace, sta per morderne un pezzetto, lo tira a sé e ….bum, il fermo è scattato all’improvviso, spaccandogli quasi l’udito, facendolo restare imprigionato nella gabbietta. Cerca di divincolarsi, va su e giu, giu e su, non gl’interessa più ora di mangiare quella roba che tanto gli piace e non ne avverte neanche più l’odore che tanto lo ha attirato! Non sta fermo un secondo, squittisce in continuazione come se si lamentasse, gridasse aiuto, ma non si rende conto che nessuno, ormai, lo può più aiutare. E’ finita, veramente finita!
E’ mattina, ormai.
Il sole già fa intravvedere il suo volto luminosissimo e la città, pian piano si sta risvegliando al nuovo giorno. Anche Ernesto si è svegliato ed è corso subito nel tinello perché spera che il topo finalmente sia rimasto in trappola, come ha immaginato nella scena sognata.
La delusione, invece, è grande davanti al solito spettacolo! Ha fallito nuovamente e quella bestiaccia diabolica ha cantato vittoria per l’ennesima volta sghignazzando alle sue spalle!
«Non ne posso più, non ne posso proprio più adesso, basta, basta davvero. Sto impazzendo! Questa bestiaccia è il diavolo in persona! Non ce la faccio più. Sono quindici giorni, dico quindici, che corro dietro a questo malefico topastro. Ora basta!».
Ernesto sembra veramente che stia sull’orlo della disperazione, sul punto di mollare tutto, mandando a quel paese tutti i sacrifici che ha fatto nel frattempo.
Si siede accanto al focolare. Si accende la pipa e sniffa una lunga boccata. Guarda la lingua di fuoco che si sprigiona dai due grossi ceppi di castagno e ascolta gli scoppiettii che ne derivano. Si alza dalla sedia di paglia e va avanti e indietro per la stanza, ora in un senso ora in un altro. Pare un forsennato preso da una crisi isterica. Si risiede incrociando le gambe. Si rialza di nuovo, rifà la stanza un paio di volte avanti e indietro, poi si reca vicino alla vetrina che da sull’antico corso Umberto. Ammira la strada affollata di gente, automobili, biciclette, motorini.
«No», dice a un tratto, come per rispondere ad una precisa domanda che qualcuno gli ha formulata, «non mi arrendo, nossignore! Non hai ancora vinto, maledetto e infernale topo. Vedremo chi la spunterà, vedremo».
Attizza di nuovo il fuoco che ormai si sta spegnendo a poco a poco. Va nell’altra stanza, che è quella da letto, prende la trappola, la prepara con cura mettendovi dentro un’altra mezza fetta di mortadella con sopra delle briciole di pane, mette il fermo all’occhiello e la sistema al solito posto. Indossa un cappotto tutto sgualcito ed esce. Sono quasi le quattro del pomeriggio.
Sente che quel giorno qualcosa accadrà. Lo avverte come un peso che si deve togliere dallo stomaco, e al più presto pure! Si dirige verso piazza Municipio che già a quest’ora è molto affollata. Cammina trascinandosi quasi dietro le gambe ed ogni tanto si ferma e da uno sguardo in giro. Ascolta le voci dei bambini che gridano nei loro giochi e pensa: «Che soave musica per le mie orecchie sono queste urla angeliche e senza macchia!».
Cerca di ricordarsi così di quand’era bambino pure lui e non riesce a rimuovere nella sua memoria nessun episodio in cui è stato felice, contento, spensierato come sono adesso questi bimbi che osserva mentre giocano nei loro trastulli innocenti!
E’ passata circa un’ora da quando è uscito di casa, quindi pensa di rientrare. Sulla strada del ritorno cerca di immaginare quel che è potuto accadere a casa. Ma mentre lo sta per fare, ordina quasi alla sua mente di occuparsi di altri pensieri, perché vuole avere veramente una sorpresa e se, come le altre volte, fosse stata negativa, tanto vale non pensarci affatto, dunque.
Giunge alla sua vetrina. Prende la chiave nella tasca del pantalone, la mette nella serratura ed apre. E’ nervoso, lo si nota da come si sta togliendo il cappotto, tremando e impiegandoci un sacco di tempo. Si dirige verso il tinello, accende la luce e……. la trappola non c’è più, o almeno sul tavolo.
Infatti, si abbassa e vede che sta a terra capovolta, con il fermo che è scattato. Nota che dalla mezza fetta di mortadella ne è stato tolto un pezzettino e si vede ancora il morso del topo con i caratteristici risvolti dei denti affilati. Ma Ernesto, più di ogni altra cosa, cerca il topo, il malefico topo che tanto gli ha dato da penare.
Dov’è ora? Cos’è successo? Possibile che l’ha fatta ancora una volta franca come sempre? Ma la trappola è scattata e un pezzetto di carne è stato comunque mangiato, di questo ne è certissimo perchè è un dato di fatto evidente. E allora?
Il suo cervello è quasi sull’orlo di scoppiare, tanto è il lavorìo a cui lo sottopone. Ad un tratto sente un lieve rumore, come di un risucchio quasi. Più dalla curiosità che dal sospetto vero e proprio, è mosso ad andare nell’altra stanza da dove è arrivato il rumore. Senza spiegarsi il perché, cammina in punta di piedi portandosi appresso la trappola. Arriva alla porta che dà nella sua camera. E’ socchiusa. L’apre quel po’ che gli basta per infilarvi dentro la testa. Si affaccia e quello che vede è agghiacciante!
Un grosso e baffuto gatto sta giocherellando con le sue zampe anteriori con il corpo ormai senza vita del roditore. Questi è un piccolo topolino dalla coda lunga, nerissimo e con il musetto appuntito. Il vecchio Ernesto è rimasto di stucco, esterrefatto, a malapena si regge agl’infissi della porta. Non riesce a capire cosa effettivamente è accaduto. D’un fatto, però, ne è arcisicuro: il topo a cui ha dato la caccia è andato nella gabbietta ed ha fatto scattare il fermo che fa abbassare la porticina. Dunque, è rimasto imprigionato. Ma come ha fatto il gatto, poi, ad acchiapparlo, questo rimane un mistero!
Per caso abbassa lo sguardo sulla trappola che ha ancora in mano e s’accorge che tra un ferretto e l’altro, posti verticalmente tra loro, c’è un po’ più di spazio rispetto a quello che c’è tra gli altri, segno che il topo è riuscito appunto a farsi spazio allargando tali ferretti col proprio corpicino. Ma ha trovato sulla sua strada questo grosso gatto che evidentemente è entrato dalla bassa finestra della camera, avvertendo quasi la presenza del sorcio.
«Si», pensa Ernesto ancora confuso, – «questa è senz’altro la spiegazione più valida dell’accaduto».
Ciononostante egli ora prova nello stesso tempo un senso di vuoto, di delusione e un altro invece di euforia, di gioia. Ha osservato questo grosso felino dagli artigli appuntiti che mette nelle sue voracissime fauci il corpicino d’un topo ormai straziato e ridotto a brandelli. Prova una certa pena per “quella bestiaccia malefica” che è stata l’incubo degli ultimi venti giorni della sua vita!
All’improvviso si fa cadere dalla mano la trappola provocando un sordo rumore. Cosicché il gatto, con in bocca ben saldamente il topo, scappa via dalla finestra da dove è entrato.
Ernesto scoppia in un pianto improvviso, fanciullesco, sincero. Neanch’egli sa con precisione perché lo sta facendo. Forse perché ha perso per l’ennesima volta, dal momento che il topo è riuscito a fuggire, o forse perché si sente solo tutto a un tratto, in quanto gli è stata portata via una cosa che, in fondo, faceva parte ormai della sua stessa esistenza?
Non sa decifrare se queste lacrime sono impregnate di gioia per la morte del topo o di amarezza per la sua sconfitta, suo malgrado!
«Era destino che finisse così!», dice asciugandosi il viso bagnato, «e domani, nonostante tutto, sarà un altro giorno!».
Maurizio Albarano