Ero studentessa universitaria quando venni contattata per un colloquio a seguito di una domanda di lavoro indirizzata ad una cooperativa sociale. L’esito fu positivo e mi venne illustrato il lavoro che avrei dovuto svolgere, apparentemente semplice in quanto i miei studi erano inerenti al sociale; educatrice con accompagnamento di Giulio.
Un ragazzo adolescente affetto da Sindrome di Donohoue della quale sapevo molto poco caratterizzandosi ancora oggi tra le malattie genetiche rare.
Mi furono presentati tutti i ragazzi che frequentavano quell’atipica scuola in mezzo al verde circondata da alberi con fiori alle finestre che profumavano l’aria di fine estate, e dove le materie insegnate erano la cucina, l’agricoltura e l’artigianato. Ero entusiasta di questo nuovo lavoro.
Giulio era timido. Vidi che mi scrutava, allora mi presentai e gli dissi che dal lunedì successivo io sarei andata a prenderlo a casa e lo avrei accompagnato qui a scuola; lui rimase in silenzio, continuava a guardarmi; gli chiesi se era contento, lui mi fece cenno di sì con la testa, gli porsi la mano in segno di saluto e presentazione lui ricambiò e poi lo salutai. Mi presi ancora un attimo per osservare i ragazzi riprendere a chiacchierare tra loro e affaccendarsi con entusiasmo alle loro mansioni.
Il lunedì successivo presi il treno, e come da accordi arrivai puntuale all’indirizzo che mi avevano segnalato. Suonai il campanello, mi venne ad aprire una signora piccola piccola che con aria interrogativa mi guardava fissa. Con un po’ d’imbarazzo le dissi buongiorno, e lei, senza troppi convenevoli mi chiese se io ero la nuova ragazza che veniva a prendere Giulio per portarlo a scuola. «Sì, sono io!» le dissi.
«Posso stare tranquilla?»
«Ma certo glielo riporto alle 15.00» le risposi rassicurandola,
«Sa non è che io sia molto d’accordo, Giulio la mattina ha sonno…»
Io risi cercando di tranquillizzarla «e chi non ha sonno la mattina?» dissi in battuta. Anche lei accennò ad un sorriso. Mi avevano messo in allerta sulla personalità schiva e sfuggente della madre di Giulio. Purtroppo questa sindrome spesso è genetica e in questo caso anche la madre ne era affetta seppure lievemente.
Giulio si affacciò da dietro, era più alto della donna «sono io che devo andare a scuola?» chiese senza rivolgersi a qualcuno in particolare, lasciai parlare lei, non volevo impormi, avendo dato un’occhiata sommaria dentro casa e rimanendo sulla porta avevo notato qualche stranezza alquanto buffa come le palline di Natale dentro alla lavatrice, la tavola apparecchiata dalla sera prima, e la pattumiera fuori casa traboccante di bibite gassate e resti di ogni genere di stuzzichini come patatine, noccioline, “pouf pouf “, cose molto golose ma di certo poco sane o adatte per una cena della domenica.
«Sì, devi andare, sei pronto?» chiese prontamente la madre «hai preso tutto?».
Giulio si guardò intorno «sì» disse guardando in basso e mi venne incontro dicendomi un timido buongiorno e incamminandosi. Ricambiai il saluto con un sorriso e lo seguì. Lui conosceva la strada, l’anno prima aveva avuto un’altra educatrice.
Così partimmo a piedi, un chilometro di strada per raggiungere la stazione, dove prendemmo il treno che ci portava alla nostra destinazione, dove ci attendevano con la macchina o il pulmino per accompagnarci alla scuola. Alcuni giorni rimanevo all’interno della struttura, altri rientravo per poi tornare a prenderlo all’ora prestabilita.
Fino ad allora la mia conoscenza di questo mondo parallelo si basava su testi scolastici: sindromi, anamnesi, cure, ricerca, prevenzione, test genetici, etc etc…Venivo interrogata, sostenevo gli esami ed era tutto facile: sottolineavo, studiavo, ripetevo, ottimo! Qui tutto era diverso. Tutto era reale e le mie emozioni erano cambiate, ero intimorita ma anche incuriosita da questo mondo. Avevo a che fare con una persona, ne avevo la responsabilità, ne avevo la custodia per molte ore della giornata.
Ero l’educatrice di un ragazzo che stava crescendo ed iniziava a guardare il mondo con nuovi occhi.
Giorno dopo giorno iniziai a prendere sicurezza. Giulio mise un po’ da parte la sua timidezza ed iniziammo a fare lunghe chiacchierate.
Poi per me arrivava il tanto atteso venerdì, perché nel fine settimana potevo vedere gli amici, uscire con loro e svagarmi. Quando uscivo la sera spesso mi chiedevo cosa stesse facendo Giulio a casa, probabilmente quando me lo domandavo era a dormire da un pezzo.
Ogni lunedì mattina la testimonianza degli strani weekend di Giulio: sacchi di spazzatura neri sotto i miei occhi vicini alla porta d’ingresso, pronti per essere gettati nel cassonetto, dai quali spuntavano bottiglie di plastica colorata, gialla verde rossa, tutti colori belli e accattivanti per i consumatori migliori, sacchetti di patatine, biscotti, gelatine, un’abbondanza di zuccheri che solo a guardarli si era a rischio diabete e questo per Giulio era un pericolo serio data la sindrome da cui era affetto.
Incuriosita glielo chiesi: «ma avete festeggiato un compleanno nel fine settimana?» lui mi guardò un po’ stupito rispondendo con un «no».
«Scusa se te l’ho chiesto ma ho visto tante buone cose» ancora più stupito: «si ce le da mia mamma, sono buone, mi piacciono!».
Questo era uno dei motivi del perché a pranzo rimaneva in struttura, lì il cibo era curato, c’era una cuoca dedicata in una grande cucina che ogni giorno preparava menu di stagione e sani per i ragazzi che frequentavano la cooperativa.
Infatti Giulio ammise poi che quando mangiava a scuola si sentiva meglio, così gli spiegai che mangiare sano è importante e si sta molto meglio, «lo devo dire a mia mamma» disse sicuro di se.
Purtroppo la sua mamma non lo faceva per assecondare e accontentare i gusti del figlio, ma in quanto anche lei avendo la stessa sindrome avrebbe avuto necessità di assistenza per il ritardo da cui era affetta.
La situazione seppure tranquilla e pacata, era di un disagio commovente.
Affetto dalla stessa sindrome era il fratello maggiore di Giulio, il quale girava per il paese con una simpatica ape-car addobbata con gadget di ogni tipo e quando la mattina o il pomeriggio ci incrociava per strada salutava animatamente suonando il clacson. Lo conoscevano un po’ tutti in paese e tutti lo salutavano, lui proseguiva ridendo e dando una veloce accelerata alla sua ape.
Qualche volta lo incontravo da sola lungo il tragitto dopo aver riaccompagnato Giulio. Allora si fermava per due chiacchiere, per chiedermi delle scuola e dirmi che Giulio gli aveva detto che era felice di andarci. Mi chiedeva come andava e se imparava tante cose.
Avevano anche una sorella, la mamma un giorno mi fece vedere una foto che la figlia le aveva mandato, era stata scattata il giorno del matrimonio «lei è normale» mi disse «non è come noi» a quando capii loro non erano stati invitati alla cerimonia. Provai molta tristezza ma la mascherai con un’espressione di normalità , congratulandomi per la bella figlia che aveva.
Giulio ogni tanto mi parlava di lei e mi disse che era andata via e lui non la vedeva quasi mai.
Ma non gli mancava, era andata via che lui era molto piccolo, per cui se la ricordava poco.
Il padre praticamente non c’era mai, lavorava in un’altra città e saltuariamente tornava a casa.
Ogni giorno sapevo qualcosa in più e mi era utile per cercare di svolgere questo lavoro al meglio.
Finì per non essere più un semplice lavoro, com’era cominciato, ma iniziò ad essere quello che volevo fare davvero quando mi alzavo molto presto la mattina per accompagnare Giulio a scuola, non potevo mancare all’appuntamento. Spesso quando arrivavo lo trovavo già pronto che gironzolava nel giardino davanti a casa; mi aspettava. Gli piaceva andare a scuola e imparare tante cose. Anche sua mamma aveva preso fiducia e si affacciava sulla porta per parlare un po’, informarsi del figlio e salutarmi. Il viaggio verso la scuola era divertente, parlavamo e gli raccontavo molte cose.
C’erano poi i giorni prestabiliti dei rientri nei quali rimanevo a scuola e lavoravo con tutti i ragazzi del corso, sempre affiancando Giulio. Il programma era organizzato in lezioni e compiti ben prestabiliti: c’era il giardinaggio dove si doveva invasare, trapiantare, seminare, andammo persino a vendemmiare e iniziammo la preparazione del vino; poi c’erano le ore dedicate all’artigianato nelle quali si costruivano cesti, cornici e si creavano oggetti; le ore dedicate alla cucina dove si preparava il pranzo tutti assieme e c’era lo spazio dedicato all’arte dove si dipingeva, colorava e disegnava e spazi dedicato allo sport.
Giulio quando rientravamo commentava i compagni con critiche divertenti e ci mettevamo a ridere quando li imitava, si fermava lungo il tragitto per fare le imitazioni, «ma hai visto come faceva? Quello è imbranato!» e poi rideva «ma poverino io lo aiuto se non ce la fa» diceva subito dopo facendosi serio.
Un giorno mi disse che doveva chiedermi una cosa, ma si vergognava un po’ perché lui non era tanto bravo a parlare. Gli dissi di non preoccuparsi perché lui sapeva parlare bene, ed era vero così lo esortai a proseguire, lui esitava, «dillo con parole tue non preoccuparti» gli dissi.
«Ma se non capisce?»
«Non capisce chi?» chiesi
«Lei» disse e mi indicò.
Mi fermai un attimo «Giulio ma mi dai del lei?»
«Si» disse imbarazzato «beh lei viene ogni giorno a prendermi e mi accompagna, mi fa un grande favore»
«Giulio a parte che mi devi dare del tu proprio perché ci vediamo ogni giorno, e poi il lei mi fa sentire vecchia» e risi «io vengo a prenderti per accompagnarti a scuola a imparare nuove cose, dammi del tu tranquillamente, il “lei” si da quando bisogna essere formali, ma noi ci conosciamo già»
«Ah va bene allora ti do del “tu”»
«si così andiamo meglio, dimmi pure, se non capisco te lo richiedo»
«ma se non riesco a spiegarmi?» disse impacciato.
«Se non riesci ti aiuto e vedrai che in qualche modo ci spieghiamo»
«Bene allora io volevo dire di Ken Shiro, io guardo sempre Ken Shiro in tv e mi è venuta un’idea» poi volse lo sguardo verso il basso e fece “no no” con la testa.
«Vai avanti Giulio, è bello Ken Shiro , lo conosco anch’io» lo assecondai.
A quel punto mi guardò e sicuro di se spiccò un salto «allora lo dico!» tutto contento iniziò a parlare: «ho avuto una grande idea!! Possiamo andare là dove abita Ken Shiro a conoscerlo, tu sai dove abita Ken Shiro?»
-Proprio un’idea strepitosa- pensai -come ne esco qui?- mi chiesi -cosa gli dico?- mi dispiaceva doverlo disilludere.
«Giulio ma Ken Shiro è un cartone animato…»
«sì lo so»
«sì, ma è finto»
«ma io lo vedo e se lo vedo esiste» … potevo dargli torto?
«Sì infatti esiste ma è molto, molto lontano da qui»
«e dov’é?»
«In Giappone»
«ma se prendiamo il treno e andiamo la?»
«Non possiamo andarci in treno, c’è di mezzo il mare»
«allora è davvero molto lontano Ken Shiro in Giappone, ma con l’aereo possiamo?»
«Sì potremmo, ma vedi Giulio, Ken Shiro è un cartone, si chiamano cartoni animati perché ci sono delle persone come noi che li disegnano e poi li muovono»
Si fece un po’ serio: sapere che il suo idolo era il frutto di qualche mente lo destabilizzava alquanto, poi incuriosito e pensieroso riprese a parlare «ma i combattimenti come li fanno?»
«Sempre così, li muovono delle persone»
«Ma per me se noi voliamo lì dove abita Ken Shiro in Giappone lo possiamo conoscere perché lui c’è anche se lo muovono delle persone»
«questo è vero!» gli dissi
«Allora facciamo finta che ci andiamo, e ma poi cosa gli diciamo?»
«Gli dici che lo guardi sempre e che ti piace tanto quando fa i combattimenti»
«E’ vero!! Non ci avevo pensato…»
Camminammo fino a casa immaginando cosa avremmo dovuto dire a Ken Shiro e quando fu davanti alla porta si girò e mi salutò «ci vediamo domani, ciao» e sparì dentro casa.
«Ciao, a domani» dissi alla porta già chiusa.
La cosa più bella che mi disse Giulio poco prima della fine di questa esperienza assieme, prima che la vita per tutti e due sarebbe molto cambiata -lui sarebbe andato in una casa famiglia e io avrei dato gli esami e finito gli studi- mi guardò fissandomi e iniziò a parlare: «ma io e lei…» e ancora una volta lo interruppi: «Lei chi? Giulio dammi del “tu”».
«Ah sì sì hai ragione. Ecco, io e te siamo amici vero?»
Poche parole buttate lì su un treno in corsa, uno dei concetti più importanti e alla base dei rapporti, mi arrivò dritto come una scossa, sentii la commozione salire nel guardare la sua espressione contenta, ma non potevo mettermi a piangere anche se sono certa che se gli avessi spiegato il motivo avrebbe capito.
«sì» gli sorrisi «noi siamo amici»
«l’amicizia è una cosa bella vero?»
«Sì Giulio molto! L’amicizia è un bel sentimento e quando si è amici si conta l’uno sull’altro e ci si aiuta»
«Ah come Ken Shiro che combatte per i buoni» disse lui entusiasta.
«Esatto!!» risi io «proprio come Ken Shiro»
«Se lui potesse conoscerci sarebbe nostro amico»
«Eccome se lo sarebbe!» gli dissi «e sarebbe contento di avere degli amici come noi»
«Sono contento che siamo amici» mi disse guardandomi, poi si voltò a guardare fuori dal finestrino.
I giorni, i mesi e le stagioni si susseguivano, il gelo dell’inverno lasciava il posto a qualche accenno di primavera e c’era sempre un venerdì a concludere la settimana. E la vita “normale“ riprendeva a scorrere: andavo a ballare, vedevo gli amici per uscire e divertirmi, alcuni non aspettavano altro per tutta la settimana. Iniziai a percepire che il valore della vita stava altrove, presi coscienza del fatto che non si può vivere cinque giorni aspettando il venerdì sera, ma quei cinque giorni devono avere un senso, il proprio compito deve avere un senso, sia che si sia scelto o che ci si sia trovati a svolgerlo.
Spesso il sabato sera mi sentivo fuori posto nel frastuono della vita notturna, nell’esagitazione di chi si deve divertire a tutti i costi, nelle scorribande di superficialità condensate in una notte. Ricercavo quei silenzi che mi accompagnavano durante i tragitti per andare a prendere Giulio e accompagnarlo lungo il suo strano percorso, e attraverso il suo mondo fantastico dove si possono incontrare i cartoni animati e tutto è possibile, anche costruire una casa dentro al fiume che scorre così in estate quando fa troppo caldo si sta freschi e l’acqua quando scorre fa un bel rumore. Questa un giorno fu una delle sue idee, me lo disse precedendo l’inizio del discorso con un saltello come faceva sempre prima di iniziare un discorso che lo entusiasmava.
Poi si bloccava facendo “no no“ con la testa e diventando serio, allora lo incitavo e lui «no no, non so se dico bene»
«Giulio tu dillo dopo vediamo» e allora riprendeva lo slancio e parlava.
Sapevo che era un rapporto a termine, avevo firmato un contratto a termine. Un anno con Giulio mi ha dato davvero tanto, concretamente, a livello umano, da fuori eravamo un’educatrice che accompagnava un ragazzo diversamente abile, ma io ci vedevo un rapporto tra due individui che si erano casualmente incontrati e aiutati a crescere mascherati dietro ai ruoli.
Ogni tanto mi chiedo -chissà come sta Giulio? Chissà cosa fa nelle sue lunghe giornate?-
Tante persone che ho conosciuto le ho dimenticare nella fretta e nel rumore delle tante cose da fare, Giulio non l’ho dimenticato, non ho dimenticato com’è interessante e importante vivere mettendo un po’ di colore e fantasia in quello che si fa per rendere le giornate più avvincenti.
A scuola stavamo andando tutti e due, una scuola dove ogni giorno si apprende qualcosa di nuovo e che nessuna lezione accademica può insegnare; dove ogni giorno il rispetto e l’aiutare l’altro con il cuore ad avanzare su questo percorso chiamato vita è l’aspetto importante e alla base dei rapporti.
E questo ad insegnarmelo è stato Giulio, un ragazzo di 16 anni affetto da Sindrome di Donohoue.
E poi alla fine mi chiedo davvero chi su quel tragitto per andare e tornare da scuola accompagnava chi?
Federica Tinti