Una lacrima le scorre lungo la guancia, è la paura, la felicità, la somma di emozioni che prova quando le portano quel fagottino rosa che consegnano con delicatezza, lei apre le braccia e lo accoglie sorridendo, mentre Mauro, il papà, è chino su di loro e si commuove.
Margherita teme che anche sua figlia, teme di averle donato un’eredità con la quale dovrà lottare, come ha fatto lei, ma l’hanno rassicurata, le cose sono cambiate da allora.
Tutto era cominciato un giorno qualunque in quarta superiore, a poche settimane da Natale. In realtà aveva già notato che la carta geografica era ridotta male, non si vedevano gli stati, i nomi delle città principali, era vecchia e da buttare.
Ma il problema si rese più evidente quando la professoressa di inglese le chiese di rispondere alla domanda scritta alla lavagna.
Si rese conto di non riuscire a distinguere le parole che si deformavano tanto da risultare incomprensibili. Si passò la mano sugli occhi un paio di volte.
La prof rimase sorpresa.
«Margherita… allora?»
Lei continuò a cercare di interpretare quelle parole, ma non ci riuscì.
«Non vedo bene» rispose. Una risata serpeggiò in aula, i ragazzi sono crudeli nel loro modo di sogghignare.
La segreteria chiamò sua madre, la figlia aveva un problema di vista.
Il lunedì successivo Margherita apparve con un paio di occhiali arancioni e la diagnosi del medico che le suonava ancora nelle orecchie.
«Niente di grave, la bambina ha un problema di astigmatismo», ma non sapeva se le aveva dato fastidio più la diagnosi o quella definizione, avesse detto ragazza, anche ragazzina sarebbe stato meglio, ma non bambina, bambina sarà stata sua sorella.
Margherita divenne la terza quattrocchi della classe, ma era difficile stabilire se lei fosse peggiore o migliore rispetto agli altri due, arrivati sin dalla prima con gli occhiali e quindi accettati e basta.
Durante la lezione di storia, il prof utilizzò una serie di noiosissime diapositive sparate sulla parete bianca opposta alla cattedra parlando per due ore senza mai fermarsi.
Le spiegazioni erano dettagliate, le immagini colorate e belle, ma questo lo venne a sapere dalla sua amica, la quale le passò gli appunti che lei non era stata in grado di prendere.
Tornando a casa, scendendo dalla corriera non vide lo scalino e si ribaltò cadendo sul marciapiede. Preoccupata di non rompere gli occhiali nuovi, si graffiò le ginocchia e il palmo della mano destra, per non parlare della giacca strappata, la giacca che erano andati a comprare la settima prima.
Sua madre la sgridò, rimproverandole di essere sempre con la testa per aria, e lei da allora cominciò a chiudersi in camera sua a piangere con la sensazione che il mondo stesse complottando contro di lei.
A scuola le cose peggiorarono e la madre fu riconvocata per la preoccupazione del corpo docente, incerto sulla promozione alla fine dell’anno.
Margherita affrontò i propri genitori accomodati in poltrona una sera di febbraio. Spiegò loro che la vista, nonostante gli occhiali, non era migliorata, anzi, aveva la sensazione che le cose fosse peggiorate e temeva di diventare cieca.
La cercarono di tranquillizzare, ipotizzando che stesse esagerando, ma le promisero di cercare un secondo parere.
Questi era un anziano oculista con un’espressione arcigna. Dopo controlli e verifiche anche sulle lenti, concluse che la diagnosi era corretta, ma che erano necessari degli esercizi di ginnastica oculare, altrimenti la «bambina avrebbe rischiato gravi conseguenze» sentenziò. Margherita cominciò a chiedersi se quello si fosse messo d’accordo col primo nel chiamarla in quel modo. La teoria del complotto era sempre più evidente.
Fece quegli esercizi a giorni alterni arrivando a casa con la testa che le doleva continuamente. Ogni tanto spegneva la luce in camera e cercava di fare le solite cose, come se fosse cieca, con la sotterranea speranza di allenarsi all’idea di diventarlo davvero.
Arrivò aprile e poi maggio, studiare era pesantissimo, il mal di testa divenne una costante ma grazie alla disponibilità degli insegnanti e di alcuni amici, riuscì a superare gli scrutini seppure con una valutazione che corrispondeva alla metà di quello che avrebbe potuto ottenere.
Con la convinzione che l’estate le avrebbe dato la possibilità di riposarsi, festeggiò pure lei la fine dell’anno scolastico. Nel corso dei mesi estivi, gli occhi le lacrimavano e la sensazione di vedere sempre meno l’angosciava ogni giorno, dal mattino alla sera. A settembre, ritornando in classe, il problema si ripresentò nella sua forma peggiore, non soltanto non riuscì a distinguere le scritte alla lavagna, ma leggere era diventato un patimento insopportabile, così dopo una settimana dall’inizio delle lezioni, Margherita venne accompagnata da un altro oculista, con il timore di ricevere un altro brutto responso con l’aggravante di essere chiamata bambina per la terza volta.
Il camice bianco che vide arrivare, le si soffermò di fronte. L’esame confermò la distorsione dell’immagine, ma quelle due labbra strette dissero «Pare un cheratocono».
La madre di Margherita non capì, se lo fece ripetere due volte e lui le spiegò che si trattava di una malattia rara responsabile della deformazione continua della cornea, con la conseguente modifica dell’immagine proiettata sulla retina. Propose l’uso di lenti a contatto non tanto per ridefinire l’immagine, quanto per tentare di schiacciare la punta del cono e ricreare la normale concavità della cornea.
Imparare a usare e sopportare le lenti fu difficile e a distanza di un mese la lacrimazione era insistente, a volte imbarazzante, ma almeno riusciva a distinguere le persone e le cose.
Malgrado questo primo risultato, la lettura era ancora faticosa, e alla visita successiva, le venne riconosciuto un peggioramento, in particolare dell’occhio sinistro. Dopo l’ottimismo che l’aveva entusiasmata, Margherita ripiombò nella tristezza. Il cheratocono era una patologia influenzata dalla crescita e purtroppo il periodo dell’adolescenza, che è quello della maturazione, rappresentava la fase più acuta per quella patologia.
All’ennesima visita, la dottoressa, una giovane che si era messa seduta di fronte a lei a osservarla pensierosa, le spiegò:
«La malattia peggiorerà sino a rendere la cornea così deformata da non permettere più nemmeno l’applicazione delle lenti a contatto» si sfiorò il mento e continuò, «pertanto non abbiamo scelta».
Margherita venne inserita in una lista con la previsione di fare un’operazione, tuttavia quattro mesi dopo, mentre la malattia si acuiva rendendo difficile l’uso delle lenti che saltavano cadendole qua e là, quella stessa dottoressa la richiamò dicendo che non era possibile fare alcuna previsione dei tempi perché si rendesse disponibile un donatore compatibile e che l’alternativa era un trapianto in un centro specializzato, seppure lontano, ma con tempi più brevi, dove avrebbero utilizzato cornee di squalo.
La cosa lasciò perplessi tutti in famiglia, ma l’aggravamento rese la cosa meno assurda di quanto non avrebbero pensato anche solo un mese prima.
Un martedì di febbraio alle nove del mattino, lei e i suoi genitori partirono per l’aeroporto. Era la prima volta che prendevano l’aereo e lei che lo aveva sempre sognato, non avrebbe mai immaginato che l’avrebbe fatto per curarsi e non per andare in vacanza in qualche lontano luogo esotico.
Che rabbia non vedere quasi nulla dal finestrino preso il quale aveva voluto prenotare il posto, percepiva solo colori. Decise di dormire, di non pensare a quello che stava andando ad affrontare e si addormentò ascoltando pur senza troppa attenzione, quello che la signora davanti a lei stava dicendo al marito, parlando dell’appartamento al mare dove il riscaldamento non funzionava dall’inverno precedente. Lui rispose che tanto in inverno non ci andava nessuno quindi non importava, lei rispose qualcosa.
Si ritrovò immersa nella confusione dell’aeroporto, nel taxi sino all’albergo dove avrebbero soggiornato i suoi e poi all’ospedale, dove una marea di persone andavano e venivano dimostrando che anche se non lo sai, c’è un mucchio di gente che non sta bene e che lotta per la salute ogni giorno, in ogni istante.
Venne messa in una stanza assieme a una giovane italiana di qualche anno più di lei. Non parlava molto, se ne stava in silenzio a fissare il vuoto, o almeno quello che del vuoto riusciva ancora a distinguere.
La mattina seguente venne condotta in sala operatoria.
Si risvegliò con una grossa benda sull’occhio sinistro e a malapena vedeva la luce e le forme con l’altro. Qualche minuto dopo apparve il chirurgo con un sorriso, si avvicinò e le disse che era andato tutto bene aggiungendo:
«Vedrai che adesso riuscirai anche a nuotare meglio». Lei non capì, ma non gliene importava molta, l’importante era vedere. Figuriamoci cosa gliene importava dell’abilità di nuotare degli squali.
Rimase quattro giorni in quell’ospedale, continuando a non parlare con la compagna di stanza, ma arrivando a chiacchierare con il fratello di lei, una di quelle amicizie nate per caso e per caso proseguite nei minuti della loro chiacchierata.
Il quinto giorno, era lunedì mattina, dopo il cambio della garza da parte dell’infermiera, venne dimessa con l’impegno di controlli continui per almeno tre mesi. Agli inizi le cose non furono semplici. Venne assalita da dolori, bruciori, sensazioni strane e immagini altrettanto strane, ma nel corso delle settimane, cominciò a vedere meglio tanto che quasi otto mesi dopo non solo aveva acquistato la vista dall’occhio sinistro, ma era pronta per partire per il secondo viaggio, per l’operazione all’altro occhio, con la segreta speranza di incontrare il fratello della sua compagna di stanza.
Il destino le fece davvero incontrare quel ragazzo, che si chiamava Mauro, mentre i suoi occhi le permisero da allora di vedere benissimo, riportandole il sorriso e la fiducia nella vita.
A volte le storie più singolari possono sembrare incredibili, ma spesso sono proprio le storie incredibili a essere le più vere.
Ispirata alla storia di una persona cara.
Alessandro Fort