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Una casa felice (Maria Cristina Sermanni)

Un letto di sabbia bianca, un mare tranquillo, un cielo azzurro intenso e barche a vela in lontananza che fluttuano dolcemente sulle onde. Potrebbe essere la fotografia di un atollo sperduto nei mari caldi della Polinesia o un angolo di paradiso terrestre. E invece è soltanto la spiaggia sotto casa mia, una lingua di terra vergine, dove i turisti non possono arrivare facilmente e dove regna, quindi, una grande pace.
Ho ereditato la casa sul mare da una zia, bisbetica e apparentemente antipatica, alquanto burbera. Una sorella di mio padre, sposatasi giovanissima con un uomo assai più grande di lei e molto ricco. In famiglia nessuno aveva approvato il suo matrimonio e presto tutti si erano allontanati da lei, anche perché il marito non amava mescolarsi con gente qualunque. Vivevano isolati e gli unici rapporti che la zia manteneva erano con mia madre che era stata la sola a mostrarsi felice del suo matrimonio e ad aiutarla nei preparativi, attirandosi persino i rimproveri di mio padre.
Quando nacqui la zia venne a vedermi. Ero la prima nipote, femmina per giunta, come lei desiderava. Mi portò un bracciale d’oro che tengo ancora chiuso nel forziere dei miei ricordi (non in quello dei miei gioielli perché non ne ho). Disse che ero bruttina, ma pur sempre sua nipote e se ne andò senza aggiungere altro. I miei la invitarono al battesimo ma lei non volle venire. Argomentò l’assenza col fatto che non poteva lasciare le sue occupazioni.
Gli anni passarono. A Natale, la zia mi inviava sempre un dono e io la chiamavo per ringraziarla, ma non la conoscevo e la sua voce, un po’ secca e burbera, mi intimidiva.
Arrivai presto ai sei anni e all’inizio della scuola.
Il primo giorno mi sentivo emozionata e turbata per dover affrontare una prova che mi sembrava enorme. Rimasi, quindi, ancor più sconcertata quando, arrivando a scuola, sulla porta d’ingresso, trovai la zia. Era sorridente e molto più dolce. Mi salutò con un bacio e mi incoraggiò con una carezza. «Vai piccola» – mi disse – «questo per te è un gran giorno«.
Ricordo bene le sue parole perché mi sono rimaste scolpite nella memoria; non mi sarei mai aspettata di vedere la zia e, soprattutto, di trovarla così amorevole.
Da allora, spesso, la vedevo all’uscita della scuola. Mi veniva incontro con un dono, mi baciava, mi chiedeva come andavo. Salutava la mamma e se ne andava via col sorriso sulle labbra.
Io avevo cominciato ad amare questa zia particolare, un po’ misteriosa, e, non rendendomi conto del perché non venisse mai a casa, come tutti i bambini curiosi, ma anche saggi, ne chiesi il motivo alla mamma.
«Vedi, spesso i “grandi” non si capiscono» – mi rispose mia madre -. «Il babbo e la zia hanno avuto in passato delle discussioni e ora non desiderano più incontrarsi. Ma lei ti ama molto. Non può avere bambini e, allora, cerca di stare vicino a te».
Le parole di mia madre erano tenere e si rivolgeva a me con un largo sorriso, ma io sentivo che non diceva tutta la verità: qualcosa d’altro doveva esserci. Ma non chiesi ulteriori spiegazioni: intuivo che non me le avrebbe potute dare. Invece, spontaneamente, dissi: «Allora, mamma, mandami qualche volta dalla zia».
Non ero mai stata a casa di mia zia e ne avevo un po’ paura. Lei aveva un aspetto severo, adulto più della sua età e il fatto che in casa non si parlasse mai di lei, mi rendeva la sua persona e la sua casa ancora più misteriose. Ma c’era qualcosa di lei che mi attirava e mi faceva superare tutte le paure. «Va bene» – mi disse la mamma – «parlerò con tua zia e le chiederò se puoi andare a trovarla».
Iniziò, così, un lungo periodo, durato fino alla morte della zia, in cui, metodicamente, ogni settimana, il sabato (giorno in cui non andavo a scuola) mi recavo da lei, proprio nella casa in cui abito oggi.
La prima volta che vidi quella casa ne rimasi affascinata. Era una casa piuttosto imponente, una di quelle ville che avevo visto solo sui giornali, circondata da un grande parco, con alberi alti e fitti che ombreggiavano così tanto da dare quasi una sensazione di freddo anche in pieno sole. Sul retro, però, dalla parte che guardava verso i monti all’interno, vi era un giardino coltivato a ortaggi e arricchito di piante da frutto di ogni tipo. In un angolo riparato si trovavano un grande tavolo di marmo e alcune sedie in ferro battuto e un caminetto mostrava i segni di una cottura recente. Ma ciò che mi colpì fu la vista del mare. Si vedeva da ogni angolo; era come trovarsi su un’isola, sul punto più alto di una piccola isola da cui si dominava il mare. Ero rimasta a bocca aperta, scendendo dalla macchina di mia madre, e non avevo neppure salutato la zia come dovevo. Lei non si adombrò; rise per la prima volta con una risata squillante in cui si rivelava il suo spirito giovanile e la sua (nascosta) voglia di giocare.
Mia madre non capì dapprima il mio stupore, in fondo anche noi vivevamo in una bella casa. Il nostro era un paese piccolo dell’entroterra marittimo, ma la nostra casa era collocata anch’essa su un poggio, circondata da un bel pezzo di terra coltivato a olivi. Io scorrazzavo ogni giorno su quei poggi che circondavano la mia casa insieme alla figlia del fattore che abitava più sotto a noi e a Pippo, il mio cane, un boxer gioviale e dolcissimo come tutti quelli della sua razza. Con Linda, la figlia del fattore, e Pippo passavo giornate stupende rincorrendo le galline che fuggivano impaurite nel vederci avvicinare o prestando soccorso a qualche porcospino infortunatosi nella rete che recingeva le terre. Non avrei potuto desiderare di più, però, nel mio cuore tenevo un sogno molto speciale: vivere al mare.
Amavo molto la mia casa e la mia terra, sentivo un forte legame con tutto ciò che mi circondava, ma col passare degli anni cresceva in me un bisogno che non era un capriccio bensì proprio un’esigenza quasi fisica: camminare nell’acqua del mare, respirare il profumo del mare, udire il frangere delle onde e il gridio dei gabbiani.
Non capivo da cosa nascesse questo bisogno, ma era in me, cresceva con me. Come crescevano le mie gambe, le mie braccia, i miei capelli, così cresceva il bisogno di mare, di sole. Forse era il bisogno inconscio di libertà, di spazio infinito che il mare rappresenta così bene quando lambisce l’orizzonte e si fonde in una linea unica che non ha inizio né fine.
Così quando vidi quella casa sentii, pur nella mia fanciullezza, che “quella” era la mia casa, che lì ero arrivata nel luogo dei miei sogni segreti. Cominciai ad andare a trovare la zia prima accompagnata da mia madre in macchina e poi da sola in bicicletta.
Rimanere seduta per ore su quella lingua di sabbia a guardare il mare, lo spumeggiare delle onde, il volo basso dei gabbiani in cerca di cibo, il camminare lento dei granchi che cercavano nella sabbia le loro prede, era tutto ciò che avevo sognato e qualcosa di più.
La zia rispettava i miei silenzi e la mia solitudine. Le prime volte, quando ero più piccola, aveva cercato di farmi divertire offrendomi giocattoli, mettendosi a disposizione per qualunque gioco, ma poi col tempo aveva capito che non avevo bisogno di altro che di starmene vicino al mare.
Lei mi guardava a lungo sorridente ed era felice nel vedermi felice. Una volta, ormai ero grande e lei era alla fine dei suoi giorni, mi confidò che aveva desiderato tanto un figlio, o meglio una figlia e, non avendoli avuti, aveva riversato su di me quell’amore che non aveva potuto dare a un figlio suo.

Io passavo sempre più ore in quella casa. Ero diventata una ragazzina introversa, soprattutto da quando Linda se ne era andata ad abitare in città per essere più vicina alla scuola e Pippo era morto, giocando e facendo le feste fino all’ultimo respiro.
Mi sedevo per ore davanti al mare: era come se io stessa divenissi mare, mi confondessi con le onde. Udivo il rumore dell’acqua, riuscivo persino a “udire” i pesci nuotare.
Un giorno di fine primavera arrivai come sempre a casa della zia, accaldata e ansimante per i chilometri percorsi in bicicletta, ma felice perché avevo un periodo di vacanza e sarei potuta rimanere più a lungo. Il mio sorriso si spense quando vidi il volto della zia: era tesa, sembrava invecchiata improvvisamente, i suoi occhi erano rossi di pianto.
«Lo zio se n’è andato» – mi disse. «Ha lasciato una lettera di saluto ed è partito senza dirmi per dove. L’unica cosa certa è che non tornerà più». «Perché dici questo zia?» – le chiesi. «Può essere un momento di crisi». «No», mi rispose. «Non tornerà più. Non sono mai stata la sua donna. Non abbiamo figli. Niente lo lega a me. Mi ha lasciato questa casa, il necessario per vivere ed è andato in cerca di amore. Nonostante la sua età, lui ha bisogno di amore e io non ho saputo né voluto darglielo».
Si allontanò con uno sguardo triste e spento e per i due giorni successivi non la vidi. Rimase chiusa nella sua camera. E lì la ritrovai la settimana successiva. La pregai di uscire, di mangiare qualcosa, di andare a prendere il sole. Ma non mi ascoltava. Il suo sguardo era perduto; i suoi occhi erano aperti su un mondo che non era il nostro, lontano da lì. Non parlò più e si spense dopo circa un mese.
Quando, dopo i funerali, rientrai in casa per dire addio a quelle mura, a quelle cose che mi erano state care, vidi sul tavolo del soggiorno una busta. Vi era scritto il mio nome, l’aprii e lessi: «Cara nipote, solo ora posso scriverti, ora che non ho più legami sulla terra. Considera questa lettera come il mio testamento spirituale. Io la scrivo sperando ti insegni qualcosa«.
«Nella vita non ho capito che la cosa più importante è l’amore. Mi sono sposata per fuggire dalla mia famiglia che non mi amava e che forse anch’io non amavo, ma l’ho fatto senza amore. Mio marito invece mi ha amata profondamente e ha cercato per anni di scaldare il mio cuore di gelo. Non ho voluto figli per timore di cedere all’amore. Ci pensi? Io che ho adorato te, perché in te ho riposto i miei sogni di un figlio, ho rifiutato per anni di averne uno mio, nostro, per timore di amare e di perdermi nell’amore. Dell’amore mi spaventava l’idea di perdere il controllo di me stessa, dei miei pensieri, delle mie azioni.
Quando tuo zio mi teneva tra le braccia io chiudevo la porta delle mie emozioni per rimanere un pezzo di ghiaccio, disposto solo a compiere un dovere. Ma perché? Quando lui se n’è andato ho capito tutto, ho capito che lo amavo e che temere l’amore era la cosa più assurda. Ma a quel punto non potevo fare niente. Non ce l’ho fatta a vivere ancora così; la maschera della mia vita è caduta dal mio volto ormai vecchio e stanco e non ho avuto la forza di chinarmi a raccoglierla. Ho preferito seguire, per la prima volta, ciò che mi dettava il cuore: lasciarmi andare all’oblio. E ho assaporato la dolcezza dell’abbandono, della perdita di ogni resistenza, del farmi cullare nelle braccia di qualcun altro, fosse pure la morte.
Ho voluto raccontarti questo, nipote cara, perché tu sei stata la persona più preziosa per me. In te rivedevo me: la tua solitudine era la mia solitudine, ma ho avuto improvvisamente paura per te, paura che tu commettessi il mio stesso errore. Ama e lasciati andare all’amore. Io ho conosciuto la dolcezza dell’amore nella morte: lasciandomi andare nelle sue braccia non ho sentito il freddo delle sue membra ma il calore del suo abbraccio. O, forse, era il mio abbraccio, era l’abbraccio che una sola volta nella vita sono riuscita a darmi.
La casa è tua. Tu l’ami e tu saprai farla vibrare al suono di voci di fanciulli, vibrare alle note dell’amore per il tuo uomo».

Davanti a questo mare guardo i miei figli correre sulla sabbia, urlare, giocare con le onde. Più lontano mio marito sta pescando e ogni tanto mi saluta con la mano e mi manda un bacio. Io li guardo e risento le parole della zia. Mi ci sono voluti molti anni per capire quella lettera.
Quando la lessi ero solo una ragazzina che non aveva conosciuto ancora il dolore. La trafitta che provai fu come una spada affilata che sfiorava il mio torace, ma non penetrava profondamente. La ferita era superficiale e il dolore pian piano si dissolse per lasciare spazio alla comprensione. E quando, dopo alcuni anni, incontrai l’uomo che sarebbe diventato mio marito, quella comprensione si trasformò ulteriormente, il varco si allargò per accogliere l’amore.
La porta del mio cuore si spalancò e nemmeno per un attimo pensai che avrei potuto anche soffrire, che quell’uomo poteva non essere quello giusto per me. “Sentivo” in quel momento che era lui e lasciai che parlasse solo il cuore.
In questa casa sul mare sono nati i miei figli e queste mura hanno conosciuto le note vibranti dell’amore e quelle squillanti dell’allegria dei bambini. E so che la zia è felice e in pace.
Con l’amore si scalano le montagne e si attraversano i fiumi; l’amore ci dà il coraggio e l’umiltà di vivere una vita piena.

Maria Cristina Sermanni

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