«Aspettatemi!»
Il richiamo di Rajani si perse nella miriade di rumori di
Dharavi. Un gruppo di ragazzini stava scappando dalle case di
lamiera per andare nello spiazzo ormai destinato in pianta
stabile al gioco del cricket. Solo alcuni passi e l’istinto di
inseguirli dovette fare i conti con uno dei suoi accessi di tosse
che la bloccava impedendole di correre.
Da qualche settimana ormai Rajani si trascinava una bronchite
che non accennava a scemare. Durante questi attacchi i suoi
fulgidi occhi neri si arrossavano e riempivano di lacrime.
Quei due enormi fari magnetici catturavano lo sguardo e
spiccavano in un volto rotondo e dolcissimo ma già segnato
dall’esistenza. La linea morbida del naso e delle labbra le
conferivano un’espressione unica, che ispirava al contempo
malinconia e irresistibile gioia di vivere, in un’insolubile
contraddizione che era la cifra caratteristica della sua terra.
Riprese fiato e iniziò a correre.
«Vengo anch’io» urlò al gruppo che l’aveva già staccata e non
era più visibile «non potete iniziare senza di me!»
Appena qualche metro e una fitta lancinante al ventre la
costrinse a rallentare l’andatura fino a fermarsi del tutto. Ancora
non era riuscita a fare l’abitudine ai cambiamenti cui era andato
incontro il suo giovane corpo negli ultimi mesi ma nonostante
ciò le trasformazioni governate dalla natura si facevano strada
inesorabilmente. La stagione dei monsoni era appena terminata
e le abbondanti piogge che ogni volta la accompagnavano
avevano riempito di pozze e fango ogni vicolo di Dharavi
rendendo praticamente impossibile camminare senza bagnarsi
fino alle ginocchia.
Sollevando la gonna con entrambe le mani riuscì a salvare
dall’acqua e dal fango il vestito nuovo che i genitori le avevano
regalato per il suo quattordicesimo compleanno. Da quel
giorno lo portava sempre indosso, giorno e notte.
Gli odori fortissimi e penetranti di Dharavi la assalivano come
sempre, gli si facevano strada dentro senza chiedere permesso.
A quello costante e nauseabondo dei rivoli di fogna a cielo
aperto e dei cumuli di spazzatura ammassati un po’ ovunque, si
sommavano gli aromi dei cibi e delle spezie di chi già iniziava
a preparare la cena a quell’ora crepuscolare. Uniti insieme tutti
quegli effluvi formavano un miscuglio ammorbante,
insopportabile per chi non fosse nato e cresciuto lì dentro. Per
Rajani, come per tutti gli altri abitanti della baraccopoli più
grande di Mumbai, quello era semplicemente l’odore di casa.
I più fortunati rientravano ora dal turno di lavoro e la
salutavano raccomandandosi di stare attenta e di ricordarsi di
non correre o saltare. Tutti conoscevano la storia di Rajani, la
bambina presa con la forza e stuprata una notte da un gruppo di
poliziotti di Mumbai. In molti avevano assistito al rapimento e
avevano udito le urla strazianti della bambina mentre le veniva
rubata l’infanzia in uno degli strettissimi vicoli dello slum.
Nessuno però aveva osato muovere un dito per schierarsi
contro quegli uomini potenti e corrotti, consci della loro
impunità, che non avrebbero esitato a uccidere brutalmente
chiunque gli si fosse messo contro. Da quella notte tutto
cambiò per Rajani. Le amiche iniziarono a guardarla in modo
diverso e presero a evitarla. I ragazzi non le rivolgevano più i
loro sguardi interessati e pieni di desiderio. I genitori sapevano
che non avrebbero più potuto darla in sposa a nessuno. E nel
giro di pochi mesi si sarebbe aggiunta un’altra bocca da
sfamare perché, come avrebbero scoperto di lì a poco, il caso si
era accanito facendole crescere nel grembo il frutto di quella
notte di efferata violenza.
Appena giunta alla strada principale che attraversava Dharavi
da sudovest a nordest, Rajani svoltò a sinistra nella Cross road
e accelerò il passo per raggiungere il campo che distava da lì
poco più di cinquecento metri.
Era l’unica femmina ammessa alle partite dei ragazzi. Questo
era un parziale risarcimento che la comunità di Dharavi le
aveva tributato, pur continuando per il resto a emarginarla
senza sensi di colpa.
«Io inizio in battuta» disse facendo ingresso sul terreno di
gioco «e voglio stare con Ashish e Gopal come sempre». Le
squadre erano già complete e la partita stava iniziando senza di
lei. Nessuno si era voltato al suo richiamo e tutti continuavano
a fingere di non sentirla. Da sempre Rajani giocava e si
divertiva molto più con i maschi che con le femmine. Amava le
corse a piedi e in bicicletta, il calcio e la pallavolo. Ma era solo
in seguito a quella notte terribile che aveva iniziato a
partecipare alle partite di cricket dei suoi amici maschi.
Conosceva già bene quel gioco complicato con le sue regole
perché vi aveva assistito fin da quando era piccolissima.
Questo le aveva permesso di muoversi con disinvoltura tra
colpi, corse ed eliminazioni diventando piuttosto brava nel giro
di un mese. La partita dei ragazzi si svolgeva di norma tre volte
alla settimana dalle sei del pomeriggio in poi. Fino a quell’ora
anche Rajani infatti, come tutti gli altri ragazzini di Dharavi,
doveva lavorare. Dall’età di sei anni passava gran parte della
giornata in una fabbrica di sapone posta all’interno della
baraccopoli. La sua mancanza di luce, il puzzo insopportabile
unito al calore tremendo che emanava dagli enormi pentoloni
neri dove cuoceva e ribolliva il grasso prima di finire nelle
saponette, rendevano quel luogo molto simile a un girone
dantesco. La scuola Rajani l’aveva frequentata per poco più di
un anno. Giusto il necessario per imparare a leggere e scrivere,
niente di più. Poi aveva dovuto iniziare a lavorare per otto o
dieci ore al giorno in modo da guadagnare l’equivalente di tre
dollari per sfamare i suoi quattro fratelli più piccoli.
Ma se le avessero chiesto se era felice lei, come quasi tutti gli
altri abitanti dello slum, avrebbe risposto immancabilmente di
sì.
Se le avessero chiesto di andare a vivere da un’altra parte, fuori
dalla baraccopoli, nel mondo che non conosceva perché non lo
aveva mai visitato, avrebbe risposto senza esitazione di no.
Questa era la sua vita e qui avrebbe trovato nonostante tutto la
sua via verso la felicità.
I ventidue giocatori avevano preso posizione e Ashish, il
migliore amico di Rajani, si trovava nel suo turno di battuta.
Rajani allora scavalcò il cordone di delimitazione del campo di
gioco, formato da rifiuti di ogni genere, e puntò dritta verso il
battitore.
«Ora mi spieghi perché non mi avete aspettato» disse furiosa
mentre avanzava «e perché siete già al completo!»
I ventidue in campo si bloccarono con gli sguardi rivolti verso
Ashish aspettando un suo cenno o una reazione. Lui sembrava
ignorare del tutto l’amica e con un rapido movimento della testa
fece intendere a tutti che non era successo niente e potevano,
anzi dovevano continuare. Rajani capì che non stavano
scherzando e che non l’avrebbero più ammessa nel cerchio
esclusivo del loro gioco preferito. Le faceva un male tremendo
sentirsi esclusa adesso. Avvertiva un dolore forte e profondo
che le lacerava la carne come quella notte in cui tre uomini
avevano fatto scempio del suo giovane corpo. Ma non si
rassegnava e con entrambe le mani chiuse a pugno iniziò a
battere sulla schiena dell’amico.
«Non potete farmi questo» urlò mentre piangeva e
singhiozzava «io devo giocare, devo devo devo! Vi prego!»
Dopo le ultime parole si era attaccata alla schiena di Ashish
finendo per abbracciarlo. Ashish si voltò liberandosi dal peso di
Rajani e la guardò negli occhi.
«Ormai non sei più una bambina» le disse ponendo entrambe le
mani sulla sua pancia rotonda «stai per diventare mamma e i
tuoi genitori ci hanno implorato di non farti più giocare.»
Rajani si lasciò cadere sulle ginocchia con la testa reclinata in
avanti e i lunghi capelli neri che sfioravano il suolo. Il vestito
nuovo si insudiciò completamente e le lacrime presero a
scendere copiose bagnando le cosce scoperte per poi inumidire
il terreno. Si alzò di scatto e vide ai suoi piedi una pozza
d’acqua che non poteva essere stata formata dal solo pianto.
Tutti i giocatori che nel frattempo si erano avvicinati, si
fermarono a osservare quel liquido che veniva giù a rivoli dalle
gambe di Rajani, come se anche il suo pube si fosse messo a
piangere.
Ashish e Gopal erano allibiti e non capivano cosa le stesse
succedendo.
«Forse sarebbe meglio che la portassimo a casa» disse Gopal
molto preoccupato.
«Non ce la faccio, mi tremano le gambe» protestò Rajani.
Ashish le si avvicinò per sorreggerla «ti portiamo noi» le
sussurrò «non devi preoccuparti». La presero insieme,
sorreggendola sotto le ascelle.
Dopo pochi passi, appena arrivati al bordo del campo segnato
dai sacchi dei rifiuti, Rajani cacciò un urlo di dolore.
«Fermi, mettetemi giù» li pregò «mi fa male, aiuto!»
La posero in terra con cura e lei si distese appoggiando la testa
sui sacchi dell’immondizia. Ashish le si mise davanti, lei lo
guardò e riuscì ad accennare un sorriso. «Vado a chiamare il
dottore» le disse lui.
«Va bene» rispose Rajani cercando di mantenere un’espressione
sorridente che però si trasformò rapidamente in una smorfia di
dolore.
Dopo dieci minuti tornò Ashish accompagnato da Pramit e
dalla madre di Rajani. Pramit era chiamato da tutti dottore
sebbene non avesse mai studiato medicina. Il suo passato di
militare lo aveva portato a frequentare per anni gli ospedali da
campo e questo gli aveva fatto acquisire alcune conoscenze di
base. Era considerato ufficialmente il medico di Dharavi.
«Mamma che mi succede?» implorò Rajani «ho paura». La
madre rivolse lo sguardo al dottore che prese la mano di Rajani
e le rispose: «tuo figlio o tua figlia vuole semplicemente venire
alla luce. È arrivato il suo tempo. Non preoccuparti, andrà tutto
benissimo.»
Poi si rivolse ad Ashish «procurami una tinozza piena di acqua
calda, delle pezze di stoffa pulita e un paio di forbici
sterilizzate sul fuoco. Muoviti.»
Quasi tutti i giorni Pramit aiutava e assisteva qualche donna di
Dharavi a mettere al mondo dei nuovi abitanti della
baraccopoli. Quando Ashish tornò, Rajani stava urlando con
quanto fiato aveva nel suo corpo minuto e nel giro di mezz’ora
il dottore riuscì a intravedere la testa del piccolo durante le
spinte che lui stesso guidava.
Rajani era completamente rossa in volto e giaceva in un bagno
di sudore.
«Non ce la faccio, non ce la faccio» urlò prolungando l’ultima
vocale in un lamento straziante.
«Stai andando benissimo» rispose Pramit con voce calma e
rassicurante «continua così che manca poco. Ancora qualche
spinta»
Il dottore si alzò e premette il braccio sulla pancia di Rajani,
aiutandosi con il peso del corpo. La madre intanto le teneva la
mano destra e non smetteva un secondo di carezzarle i capelli.
«Eccolo!» gridò soddisfatto Pramit mentre lo sollevava per
mostrarlo alla madre bambina.
«È un bellissimo maschietto che farà innamorare tutte le
ragazze di Dharavi. Complimenti Rajani!».
La giovane mamma rimase alcuni secondi a osservare il suo
piccolo con gli occhi pieni di lacrime, poi allungò le braccia.
Pramit glielo appoggiò sul petto prima di recidere e legare il
cordone ombelicale con un gesto esperto e sicuro. Rajani baciò
suo figlio e volle sentire il contatto di quella pelle tenerissima
sul suo seno scoperto.
«Vipan» sussurrò con un filo di voce «tu sarai Vipan».
«Adesso devo riprendertelo per qualche minuto» le disse il
dottore che subito prese a sculacciarlo fino a farlo piangere. Poi
con lo appoggiò delicatamente nella tinozza per lavarlo con
cura mentre continuava a singhiozzare. I suoi gemiti e sussulti
rappresentavano una richiesta nuda di vita che era la stessa in
una baraccopoli accanto ai rifiuti come nel più moderno
ospedale di una qualsiasi città occidentale.
«Ahi!» gridò improvvisamente Rajani «mi fa di nuovo male la
pancia. Devo spingere!»
«Brava spingi ancora!» rispose subito Pramit «adesso deve
uscire quello che ha accolto e nutrito tuo figlio in questi nove
mesi».
In poco tempo uscì la placenta insieme al sacco amniotico,
pieni entrambi di sangue e del relativo liquido.
Il prezioso fluido rosso però continuava a sgorgare in modo
anomalo. Pramit divenne subito scuro in volto e si fece dare
tutte le pezze disponibili per tamponare al più presto quella che
ormai era chiaramente un’emorragia. Si sforzò di restare calmo
e di non far trasparire il suo stato d’animo per non allarmare
Rajani. Tuttavia in breve tempo tutta la stoffa di cui disponeva
si inzuppò completamente di sangue e dovette farsene portare
dell’altra. Chiese anche del ghiaccio e di nuovo Ashish tornò
dopo pochi minuti portando quanto ordinato dal dottore.
L’amico notò allora che la faccia di Rajani era diventata
pericolosamente pallida. Pramit si affannava sudando
abbondantemente nel disperato tentativo di arrestare
l’emorragia.
Rajani stava stringendo il bambino sul petto e sorrideva. Alzò
appena la testa per cercare Ashish.
«Dovete promettermi che accoglierete Vipan nella comunità di
Dharavi come uno di voi» riuscì a dire con un filo di voce ad
Ashish che aveva accostato l’orecchio alla sua bocca «mi basta
questo». Ashish chiamò allora tutti ad avvicinarsi a Rajani e
ognuno appoggiò il palmo della mano aperta sull’esile schiena
di Vipan, come a sottoscrivere il giuramento.
L’espressione di Rajani si fece sempre più rilassata e distesa
mentre il pallore aumentava pericolosamente diventando
cadaverico.
Riuscì a dare un ultimo bacio sulla fronte a Vipan e, mentre un
sorriso enorme di serenità le irradiava il volto, chiuse quegli
occhi che fino alla fine avevano brillato risaltando sulla pelle
sbiancata. Con un sussulto le braccia con cui teneva a sé il
bambino crollarono distese ai fianchi. Mentre un refolo di
vento si infiltrava tra i suoi lunghi capelli neri regalando
l’ultima impressione di vita su un corpo ormai esanime, l’urlo
disperato della madre di Rajani fece capire a tutti che non c’era
più nulla da fare. Il piccolo Vipan venne preso in braccio dal
dottore e subito ricominciò a strillare.
La vita, quella pura e senza orpelli, si imponeva anche in quel
momento senza concedere a nessuno il tempo per le pause o i
ripensamenti.
Filippo Mammoli