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Corri compagno, il vecchio mondo ti sta dietro (Patrizia Petruccione)

Simone sollevò gli occhi verso il cielo: era pieno di stelle. Poi si guardò le mani: sporche e screpolate, mani da lavoratore.
Aspettava gli altri in un anfratto buio all’esterno dello stabilimento. Quel giorno in tre non erano usciti dai cantieri al termine dell’orario di lavoro: lui, che si era nascosto in un piccolo magazzino la cui porta non veniva mai chiusa a chiave, ed ora ne era venuto fuori protetto dall’ombra della notte; Carmine, che era rimasto nell’officina, in un settore dove quelli del turno successivo non sarebbero entrati, e saltando giù da una finestra avrebbe raggiunto il compagno nel piazzaletto di fronte a quel recesso sicuro, e Alfredo che fino all’ultimo non si sapeva dove avrebbe trovato uno spazio per nascondersi.
All’Ansaldo di Sestri Ponente, in quell’autunno del 1969, si facevano i doppi turni, nonostante fosse finita l’epoca dei transatlantici. Erano giorni e mesi di lavoro duro, ma anche di sogni, in cui il miraggio di una società nuova non sembrava irraggiungibile. E per questa speranza gli operai lottavano e si esaltavano nella passione degli anni caldi che stavano vivendo, negli scontri e nelle rivendicazioni che portavano avanti uniti, anche con le mogli e i figli che partecipavano ai picchetti. Ma era facile, nonostante la condivisione del malessere, che venissero fuori dei delatori, che uno passasse dall’altra parte e per il premio di qualche ora di straordinario facesse la spia. Non ci si poteva fidare. Perciò Simone e gli altri dovevano stare in guardia e diffidare di chiunque, anche dei loro compagni.
Ora lui, da lì, dal suo nascondiglio, tra lo stridio dei macchinari e i tonfi duri delle presse, rumori che quasi ormai non avvertiva più, aveva alzato il capo a guardare il cielo. Le stelle lo illuminavano quel cielo di novembre di un anno di lotta operaia, quasi a dare coraggio, a dire che lui, Carmine e Alfredo ce l’avrebbero fatta. Le manifestazioni erano cominciate già dall’autunno dell’anno precedente: erano sfilati in corteo per le vie di Genova, avevano subito gli attacchi della Celere, erano stati dispersi a randellate insieme a quegli universitari borghesi che giocavano a dirsi di sinistra.
«Io ai figli di papà non ci credo» diceva Simone ai compagni. «I nostri interessi noi metalmeccanici dobbiamo farceli da soli.. Quei ragazzetti hanno le mani troppo pulite, troppo bianche per sporcarsele di ferro».
Invece qualcuno degli anziani della fabbrica era convinto che studenti e operai insieme sarebbe servito a cambiare le cose.
«Quali cose?» rispondeva lui. «Gli universitari con l’eskimo hanno forse un salario da difendere?» Anche se sembravano più o meno della sua età, quelli erano solo dei bambini che, stanchi delle torte fatte in casa e delle regole di mamma e papà, proclamavano la loro autonomia lasciandosi crescere i capelli senza lavarli e gridando negli slogan parole di riscatto e libertà, come se questo potesse uguagliarli agli operai.
«Il padrone ha bisogno di te, tu non hai bisogno di lui» ripetevano gli studenti nei cortei. «Lotta – dura – senza – paura ». Poi, se ti accostavi a uno di loro, ti esortava: «Lottiamo insieme! La fabbrica sfrutta, la scuola discrimina: siamo tutti sottoposti all’autorità dei padroni.. Voi sudate in fabbrica e i vostri figli non hanno i soldi per i libri e le ripetizioni: la scuola italiana è una scuola di classe. È fatta per i ricchi. I padroni dominano sorretti dal sistema e la scuola crea nuovi padroni. Abbattiamo il capitalismo che li protegge e lottiamo contro la polizia, che è l’arma del sistema, e li difende!» Subito dopo, già stanco di te, gridando: «Fascisti, – borghesi -, ancora – pochi – mesi!», si voltava, ormai lontano nella mente e nel cuore, e riprendeva a scandire coi suoi compagni gli slogan del gruppo.
Parlavano di fabbrica. Di lavoro e di sfruttamento. Ma cosa sapevano loro di notti alla pressa, di mani che facevano male per il freddo, di soldi che non bastavano mai? E quando poi si rischiava anche di perderlo il lavoro e né lo Stato né il Partito ti aiutavano, cosa poteva importare dell’angoscia degli operai a quegli intellettuali? Sfilare per le strade di Genova a fianco dei metalmeccanici era diventato una moda per loro, come quella di sventolare un libretto rosso, che era ormai la loro bandiera. A lui l’avevano messo davanti agli occhi, e poi se l’era comprato. Anche quello invitava alla lotta e alla rivoluzione. E accusava gli imperialisti e i capitalisti americani di voler dominare il mondo. Ma gli studenti, che imputavano alla scuola di essere di classe, erano dei figli di papà, e ora se ne stavano al caldo nelle belle case di proprietà dei genitori benestanti che li avevano messi al mondo e li mantenevano all’Università; oppure nelle stanze della Casa dello Studente programmavano la loro lotta o ancora se ne andavano a guardare quel cielo pieno di stelle insieme alle ragazze e le baciavano orgogliosi di quello che erano, di quello che sapevano dire e di quello che pensavano.
Lui una ragazza non ce l’aveva più. La Marina gliel’aveva portata via il figlio della maestra Salvini, che studiava da avvocato. Con la Marina c’era stato da quando erano bambini, sempre insieme: era sicuro che si sarebbero sposati. Poi lei era andata a lavorare in centro, in un bel negozio dove vendeva borse eleganti a signore raffinate; aveva cominciato a vestirsi in un modo diverso, a parlare che quasi non la capiva. Con lui non ci voleva più stare: aveva fatto un discorso lungo e alla fine aveva concluso che erano troppo distanti..
«Distanti? Cosa vuoi dire?» le aveva domandato lui.
E allora lei aveva confessato: «Sei un operaio.. Io posso avere di più.»
Così era finita. Da quel giorno non aveva più guardato una ragazza: ed erano ormai passati quasi due anni. Si era gettato a capofitto nel lavoro, perché voleva diventare caposquadra.
Poi era arrivato Alfredo, con le sue idee di rivoluzione: aveva lavorato a Marsiglia, e diceva che in Francia la lotta contro il capitalismo era già iniziata: il capitalismo era il primo nemico da combattere, ma tutta la società doveva essere cambiata, le istituzioni, il pensiero. Lui questo subito non lo comprendeva fino in fondo, ma che ci fosse qualcosa di ingiusto nel fatto che ad alcuni erano aperte tutte le strade e ad altri no era il primo a dirlo: se non fosse stato un operaio, ma il figlio di un dottore o anche di un professore, Marina non l’avrebbe lasciato, ne era convinto.
Alfredo gli riempiva la testa con parole che giorno dopo giorno lo avevano convinto: non si poteva restare inerti. Quando tutto gli era apparso chiaro, gli slogan si erano tramutati da frasi affascinanti a stimoli interiori. La vita è altrove.. A noi ora si ripeteva.
« A noi ora» gli confermò Carmine mettendosi al suoi fianco. «La roba dov’è?».
«Dentro il magazzino» rispose lui. «La tiriamo fuori o aspettiamo Alfredo?».
«Prendiamo già tutto: così quando arriva siamo pronti.»
Entrarono nel magazzino e portarono fuori le molotov. Si trattava di incendiare l’auto del direttore del personale, un’impresa facile. Ma non dovevano essere visti nella fuga, quando l’incendio e l’esplosione avrebbero fatto suonare le sirene e accorrere gente; il problema era quello di venir fuori dal cantiere. Perché non potevano mescolarsi agli operai del turno di notte: qualcuno li avrebbe notati. Avevano studiato il piano a lungo, prima di decidere. C’erano due possibilità: se il piazzale di fronte all’ingresso dello stabilimento fosse rimasto sgombro, sarebbero passati a fianco dell’edificio, ancora coperti dal buio, e sarebbero usciti da un varco che avevano creato apposta nella rete che chiudeva l’area dell’officina, a sinistra del cancello. Se invece ci fosse stato del movimento e quella via di fuga fosse risultata inaccessibile, avrebbero cercato protezione sul retro dell’edificio, nella zona del cantiere, e si sarebbero gettati in mare. Poche bracciate e sarebbero stati al sicuro. Avevano lasciato dei vestiti nel luogo in cui avrebbero preso terra.
«Perché Alfredo non si vede?» chiese Carmine con voce che quasi non usciva.
«Eccolo..» A Simone sembrò di gridare. Ma chi c’era dietro di lui?
Le luci si accesero nel piazzale e da tutti gli angoli vennero fuori dei poliziotti. Erano armati.
«Sta’ fermo, Carmine, o ci ammazzano» disse Simone bloccando all’amico la mano che teneva una molotov.
Carmine lo guardò con aria sorpresa e gridò «Ma cos’ha fatto Alfredo? Ci ha traditi! No.. Noi non ci arrendiamo. Corri compagno, il vecchio mondo ti sta dietro. La lotta continua!».
Poi si alzò e si lanciò in avanti scagliando la molotov contro il gruppo dei poliziotti che si faceva più vicino. Allora Simone sentì prorompere tutta la sua carica di rabbia: calcolò velocemente che, tra il fumo e le fiamme provocati dalla prima bomba lanciata da Carmine e finita proprio contro il gabbiotto della vigilanza, che prendeva fuoco come un foglio di cartapesta, avrebbe potuto farcela a raggiungere il parcheggio. Con un balzo si precipitò fuori dal riparo, gettandosi verso la sinistra del piazzale. Correva con lo sguardo fisso al suo obiettivo, senza voltare la testa nella direzione da cui sentiva provenire le urla e da dove udiva sempre più distinto il crepitio delle fiamme. Correva con due molotov nelle mani. Qualcuno sparava: uno due tre colpi. Forse volevano intimorirlo. Ma lui non poteva fermarsi. Mancavano ancora più di cento metri al parcheggio: doveva arrivarci. Decise di procedere zigzagando, per impedire agli uomini della Celere di prevedere il suo percorso. Avrebbe impiegato qualche minuto in più ma sarebbe arrivato. Intanto vide che dalla parte del parcheggio cominciava ad avanzare gente. I Celerini erano in tenuta antisommossa, coi caschi e lo schermo di protezione. Era ancora presto per lanciare le bombe contro le auto nel parcheggio. Però se fosse andato avanti sarebbe finito dritto in mezzo alla schiera di poliziotti che gli si faceva incontro: l’unica possibilità che gli restava di condurre a termine l’azione e forse di cavarsela era quella di colpirli quando fossero arrivati a tiro. Se non l’avesse fatto era finita. Lanciare delle molotov contro uomini come lui, che solo vestivano una divisa anziché la tuta da lavoro… Aveva poco tempo per scegliere. In una delle diagonali in cui aveva segmentato il percorso, si trovò vicino al deposito dei carburanti. Allora la decisione sopravvenne improvvisa: una molotov contro il magazzino e l’esplosione avrebbe provocato ai cantieri un danno che i sindacati e il partito non avrebbero ignorato. Quella sì che sarebbe stata un’azione di cui i compagni avrebbero parlato a lungo, quella sì che avrebbe costituito la dichiarazione di protesta che serviva contro i padroni. E forse sarebbe diventata il mezzo per creare una società più giusta. Sì. Quella era la strada che voleva seguire. Si diresse verso il deposito. Si fermò per non sbagliare il tiro.
Solo allora sentì la voce di Carmine: «Nooo! Non farlo!»
Scagliò con forza entrambe le molotov: prima una e poi, mentre quella cadeva, l’altra.
Le esplosioni che seguirono lo scaraventarono a terra. Ebbe il tempo di pensare che Carmine se l’era cavata e che, anche se alla fine gli aveva urlato di non farlo, in fondo sarebbe stato orgoglioso della sua azione. Poi una vampa di fuoco venne fuori dai serbatoi e si avventò contro di lui. Non ebbe paura. «La vita è altrove» mormorò con una smorfia che rimase sul suo volto come un sorriso.

Patrizia Petruccione

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