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Il rapido per Roma non si ferma mai qui (Marco Ernst)

Pietro aveva trent’anni, ma il fisico e, soprattutto, il cervello di un dodicenne. Viveva in un piccolo paese della Toscana, sulla linea ferroviaria per la Capitale, un paese molto piccolo, poche migliaia di abitanti, talmente piccolo che la stazione ferroviaria era stata chiusa: non c’era più capostazione, né bigliettaio, né fermate. Da tempo i treni per Roma non fermavano più nella stazioncina abbandonata: in realtà non fermavano più nemmeno i treni locali, poiché i pendolari e gli studenti delle superiori erano pochi e quei pochi adesso prendevano la corriera. Pietro era nato qui e qui era sempre vissuto: mai un solo giorno della sua vita aveva lasciato il paese.
I genitori erano contadini, ma non di quelli ricchi, con bestiame e macchine moderne per lavorare i campi, ma poveracci che possedevano tre galline, un paio di vecchi conigli che non avevano mai avuto il coraggio di ammazzare e, per lavorare il minuscolo campo, un paio di vanghe e di zappe. Ricavavano a mala pena da vivere, anzi, da sopravvivere. Poi era arrivato, inaspettato e indesiderato, quel figlio strano e il padre non aveva retto e se n’era andato, abbandonando la moglie e il bambino ritardato. Così Pietro era sempre cresciuto solo con la madre, già anziana fin da quando lui era piccolo. Lui l’aiutava come poteva, facendo qualsiasi lavoro gli chiedessero: dallo spazzare la chiesa del paese, al fare la spesa alle vecchie che vivevano da sole, a ridipingere cancelli e steccati. Almeno con le mani, però, lui era bravo, un po’ meno lo era con il cervello.
Quando non aveva da fare nessuna commissione, tentava di giocare coi bambini a pallone, nello spiazzo davanti all’asilo, ma né questi lo accettavano, né i genitori consentivano loro di avvicinare lo “scemo del paese”. Lui, allora, portava il suo metro e sessanta scarso e i suoi quaranta chili, alla stazione. Si sedeva sull’unica panchina di pietra rimasta, dove oramai sbiadivano le scritte a pennarello che avevano fatto gli studenti molti anni prima: “Ilaria ama Davide”, “W la fiorentina”, “Mary ti amo”, “Governo ladro (questa non l’aveva scritta un ragazzo, ma Bakunin, come era soprannominato il netturbino, anarchico, del paese). Le altre scritte erano illeggibili, troppo vecchie, come ogni cosa nella stazione abbandonata. Pietro aveva abbastanza anni sulle gracili spalle, da ricordare ancora gli ultimi treni a carbone, che quando passavano ti dovevi tappare il naso per il fumo e spesso ti finivano i bruscolini negli occhi, ricordava quando c’era l’aiuola fiorita di primule in primavera e di rose in estate: ora era una piccola giungla di erbacce alte più di mezzo metro.
A Pietro era sempre piaciuto, fin da bambino, andare nella sua stazione, e anche se non ne aveva mai viste altre era convinto che fosse la più bella del mondo. Gli piaceva il suono della campanella: din din din din din…, quando arrivavano i treni. Gli piaceva il capostazione nella sua divisa bella come quella di un generale, col berretto rosso con la visiera nera, col suo fischietto d’acciaio così potente che, forse, lo sentivano anche fino a Firenze.
Dalla panchina dove stava per ore poteva vedere anche il passaggio a livello con le sue sbarre bianche e rosse e lui che, ridendo, contava nella sua testa quanto tempo si sarebbero alzate dopo il passaggio del treno, anche se qualche volta sbagliava i numeri e doveva ricominciare da capo: lui non era molto bravo a contare, per questo dopo la quinta elementare, finita a tredici anni, non era più andato a scuola.
Ora non c’era più neppure il passaggio a livello, poiché era stato fatto un sottopassaggio poco più avanti. Quando passavano i treni non suonava più la campanella che gli piaceva tanto, perché nessun treno fermava più qua. Pietro aveva sempre avuto un desiderio: salire su un treno.
Certo, andare fino a Firenze o, addirittura, a Roma, sarebbe stato anche troppo per lui e avrebbe avuto anche paura ad andarci senza la mamma o il parroco. A lui sarebbe bastato salire sul treno, soprattutto sul rapido per Roma, che era la cosa più elegante che avesse visto in vita sua, avrebbe voluto toccare i sedili di velluto: si sarebbe anche lavato le mani prima, lui non era mica come quei maleducati che facevano gli scarabocchi sui suoi treni!
La vita di Pietro era molto semplice e, forse, monotona, ma era la sua vita e a lui andava bene così: si alzava presto, si lavava e beveva il latte caldo con dentro il pane raffermo; poi andava a fare i lavoretti che gli avevano affidato, se ce n’erano, altrimenti lavorava un poco nel suo campo, quindi andava a vedere se le tre vecchie galline si fossero per caso decise a fare finalmente almeno un uovo, dava l’erba ai conigli e, puntuale, alle undici e trenta, era a tavola.
Ma a lui piaceva di più il pomeriggio: anche sa aveva i lavoretti, però il pomeriggio, soprattutto in tarda primavera ed estate, era più lungo e, prima che facesse buio, gli rimaneva il tempo di andare alla stazione a vedere per pochi secondi quei treni che non si fermavano mai.
Alle sei e mezza cenava a alle otto era già a letto: loro non avevano la televisione che, un paio di volte, aveva visto al bar del paese, ma non gli era piaciuta perché era tutto finto e piccolo: a lui piacevano solo i treni. Se lui fosse stato furbo e ricco come quelli che erano stati i suoi compagni di scuola, avrebbe senz’altro fatto il macchinista sui treni ed avrebbe guidato solo il rapido per Firenze – Roma.
A volte aveva raccolto il coraggio a due mani e aveva fatto segno ai treni, soprattutto al rapido così bello ed elegante come il salotto del dottore, di fermarsi. Ma i macchinisti, che oramai lo conoscevano, pensavano che li salutasse e rispondevano al saluto: era difficile spiegare a Pietro che un treno non può fermarsi a una stazione dove non c’è più la fermata: men che meno un rapido.
Una volta, poco prima e poco dopo la stazione, c’era un semaforo ed ogni tanto, quando c’era il segnale rosso acceso, qualche treno si fermava, anche se nessuno scendeva, o saliva, così anche lui non aveva mai avuto il coraggio di salire, che se poi ripartiva dove lo portava? Cosa avrebbe fatto da solo sul treno che correva a mille all’ora senza la mamma o il parroco? Poi avevano raddoppiato la linea e, così, i treni non avevano più bisogno di fermarsi a dare la precedenza al rapido per Roma e il semaforo era sempre buio.
Trascorrevano così i giorni, i mesi, gli anni sempre uguali e tranquilli per Pietro, ma con quel desiderio irrealizzato e irrealizzabile di salire sul treno, magari anche in seconda, dove non ci sono i sedili di velluto, ma è bello lo stesso. Una volta aveva visto passare sul suo paese anche un aereo (era solo un Canad-air per lo spegnimento degli incendi), ma quello non gli piaceva: in aria ci vanno gli uccelli, non le persone, che se poi cadono magari si fanno male. E poi aveva paura che tutti prendessero l’aereo ed allora avrebbero tolto i treni e lui non ci sarebbe mai più potuto salire sopra.
Così decise che era il momento, che era abbastanza grande per salire sul treno, anzi, sul rapido: bastava fermarlo e salire: il capotreno l’avrebbe accolto sull’attenti, magari dandogli del lei, e l’avrebbe accompagnato personalmente fino ai sedili di velluto della prima classe. Sapeva a che ora sarebbe passato il rapido, anche se non aveva mai avuto un orologio, che, d’altra parte, non sapeva leggere neppure quello del campanile, lui ce l’aveva dentro l’orologio e non sbagliava mai. Aveva finalmente capito che per fermare il treno non doveva agitare la mano, ma mettersi davanti, sui binari, così il treno si doveva per forza fermare.
Così fece: quando il treno spuntò dalla curva contò fino a sette, che era un numero facile e che gli piaceva e scese in mezzo ai binari: troppo tardi per frenare, comunque, anche se il macchinista avesse visto la piccola figura davanti all’alta motrice.
«Che strano, aveva detto il macchinista principale al suo compagno, oggi non c’è lo scemo che saluta».
Le ruote fischiarono sulle rotaie, mentre si portavano via una vita in un soffio, senza neppure rallentare.
D’altra parte il rapido per Roma non ferma mai qui.

Marco Ernst

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