In quei tempi, la scelta.
Era già da tempo che pensavo di raccogliere in un diario gli anni dell’infanzia vissuti nel mondo
contadino, dopo averci provato varie volte, ora, giunto a un’età per cui la generazione dei miei genitori
è quasi scomparsa, mi appresto a farlo con decisione e volontà.
Certo, altri lo hanno fatto: sociologhi, persone legate ai ruoli professionali dell’insegnamento, svolto
negli istituti agrari o nelle università, ma quello che mi ha spinto, è che sono stato partecipe delle
vicende della mia famiglia nella comunità rurale, come uno della moltitudine delle persone che ne
hanno condiviso per molti anni la vita quotidiana. A distanza di decenni, di quei tempi, come un testimone,
riporto ancora ricordi nitidi e fedeli.
Cortona anni ‘40
Cignano in Val di Chiana.
Il borgo di Cignano ha origini antiche, è situato in una dorsale che declina verso la Val di Chiana, a
circa dieci km a ovest di Cortona, sui trecento metri di altezza sul livello del mare. La pieve ha la
sua origine a metà del XI secolo circa, fu dedicata a San Massimiliano prima, a San Salvatore poi,
infine dopo il 1400 la stessa prese il titolo che porta attualmente di San Niccolò. La suddetta chiesa
fu poi riedificata e consacrata nel 1758 da Giuseppe Ippoliti, l’allora vescovo di Cortona. Nel borgo
ancor oggi vi sono due agglomerati. Uno di questi si chiama Ospizio, lì esisteva un ospedale per
pellegrini gestito dai frati Agostiniani che fu soppresso nel XVI secolo.
Capitolo I
Nel borgo vi erano: la scuola, il barbiere, il tabaccaio, il sarto, il falegname, il calzolaio, il medico
condotto, e anche una piccola cooperativa di alimentari dove potevi trovare un po’ di tutto. Da qui
si percorrevano circa 2 km di via ghiaiosa, in mezzo al bosco, dal nome evocativo, era infatti localmente
detto “Cupa”, poi un tratto con il fondo sterrato tra campi coltivati e pinete, conduceva a un
altopiano, detto la “Selva”, ove era il podere le Macchie. Lì c’era una casa, dove ero nato e abitavo
con la mia famiglia. Finita la guerra, il mio babbo (1), i suoi due fratelli, una sorella (2), e la loro
mamma Vittoria, insieme alla moglie (3) del primo figlio, sono nuovamente insieme.
Mio zio Gino si era sposato nel 1943, all’inizio del 1945 si sposò il mio babbo e in quello stesso
anno avvenne la mia nascita. Nel 1947 muore la moglie di mio zio Gino, dandogli alla luce un figlio,
che fu chiamato Ademaro. Poi nei due anni successivi, si sposarono gli altri zii, l’altro fratello
del babbo, Ezio, e la sorella Marina. Mia nonna era rimasta vedova negli anni venti. Il 1950 è l’anno
in cui mio zio Ezio e sua moglie Elena ebbero una figlia, la chiamarono Ileana.
La famiglia era cresciuta, eravamo ormai nove persone, la terra da coltivare era poca e non ci dava
più raccolti sufficienti per tutti.
Mio zio Gino, con suo figlio e la nonna, presero la decisione di trasferirsi in una fattoria e collaborare
nei lavori presso la casa padronale, mentre l’altro mio zio, sua moglie e la figlia, i miei genitori
ed io saremmo rimasti nel podere.
Proprio in quel tempo, inaspettatamente, nella mia mamma (4), che aveva solo venticinque anni, si
manifestarono i primi disagi psicofisici, e la salute peggiorò. Frequenti amnesie, momenti di silenzio
alternati ad altri di parole prive di senso, la portarono a ricoveri all’inizio saltuari, poi a quello
definitivo in ospedale, salvo un breve ritorno a casa nel 1973, escluso gli ultimi anni della vita in
casa famiglia, dove si è spenta nel 1995.
Nella situazione cambiata, lo zio Gino non lasciò più i fratelli.
Di comune accordo ci trasferimmo in un podere molto grande oltre la Val di Chiana, nelle colline di
Montepulciano, in provincia di Siena.
Capitolo II
Montepulciano,
Cervognano primi anni ‘50.
Giunge per me il primo anno di scuola. In mancanza di mia mamma, il più delle volte mi accompagnava
mia zia Elena. Vi era una sola maestra per quattro classi, chi frequentava la quinta infatti doveva
recarsi al paese vicino di Acquaviva. L’insegnante veniva da un paese della Val di Chiana,
poichè i mezzi di trasporto erano rari, veniva il lunedì (aveva affittato una stanza in paese) e si recava
a casa al sabato. Così vivendo nella comunità, la sera dopo cena faceva scuola per adulti. Il mio
zio Ezio, dopo una giornata di lavoro nei campi, vi partecipava volenteroso e, spesso, portava anche
me.
La maestra in assenza di mia mamma aveva un occhio di riguardo per me e la mia famiglia, infatti
veniva di frequente in visita a casa mia.
Quando avevo circa nove anni, si impegnò presso la direzione scolastica riuscendo a mandarmi in
colonia, nel convento dei cappuccini, sulla montagnola alle spalle di Chianciano Terme, dove vi
sono dei boschi e foreste di faggi molto belle. Lì un accompagnatore ci faceva scoprire gli aspetti di
quei luoghi e godevamo di quelle escursioni nella natura. Fu in quel periodo, negli ultimi giorni delle
vacanze che ci portarono al cinema nella città di Montepulciano. Per me era la prima volta, e fu
una bella emozione.
Nei mesi di aprile e maggio, in gran parte della provincia, hanno luogo le corse dei cavalli e il primo
palio che vedemmo entusiasti, io e mio cugino Ademaro, fu nel vicino paese di Acquaviva. Due
anni dopo, il mio babbo mi portò, in agosto, a Siena dove quello famoso in tutto il mondo si svolge
da secoli.
Crescevo con carattere molto riservato e timido. A scuola avevo molte difficoltà nei rapporti con gli
altri alunni, ero felice quando in primavera la maestra ci portava in giro attraverso quelle vie bianche
tra le colline o nel parco di una fattoria lì vicino, dove a volte consumavamo una merenda. Era
in quei momenti che mi trovavo più a mio agio. In seguito nel tempo libero, solo, andavo a giro nel
podere, nei campi in collina, dove avevamo gli oliveti e alcuni filari di viti che erano sostenuti da
aceri selvatici, poi continuando verso la valle, c’era una piccola vigna, nei campi le colture erano
spesso diverse, nelle prode vi erano piante come pioppi, olmi, e alberi da frutto, peri, meli, susini,
noci, fichi.
Cosi come nei greppi cresceva una macchia spontanea di rosa canina, sambuco, sanguinelli, biancospini,
rovi, creando un habitat naturale utile alla preservazione della natura e a molte specie di mammiferi
e uccelli che vi nidificavano e si cibavano delle bacche e degli arbusti.
Alle volte, insieme a mio cugino Ademaro, scendevamo lungo il corso del Marmo, un torrente che
alimentava il piccolo lago di Montepulciano. Lì con le mani, o muniti di una balla di juta fissata a
un palo, così da avere un rudimentale presacchio, prendevamo piccoli pesci e ranocchi. Era frequente
che lungo gli argini incontrassimo chi risaliva dal lago in cerca di tartufi, accompagnato dal cane.
Fin dalla primavera, a volte scalzi e immersi nell’acqua, in quella natura incontaminata, perdevamo
anche la nozione del tempo che scorreva. Era normale, tornati a casa, che il mio babbo e mio zio
Gino ci sgridassero e punissero, alla sera a letto senza cena. Puntuale dopo un po’ ci portava del
cibo la nostra cara nonna, e mamma allo stesso tempo, visto che a noi entrambi mancava, pur se per
differenti motivi.
Alla fine d’autunno e in inverno, usando un ombrello molto grande, simile a quello dei pastori, spalmavamo
della pania, materia collosa ottenuta con del vischio messo a macerare nel letame. Così attrezzati,
andavamo nelle aie dei contadini, silenziosi giravamo intorno ai pagliai, dove i passeri tornavano
all’imbrunire per rifugiarsi; all’improvviso con un campanaccio facevamo del chiasso, così
essi volavano via, ma alcuni ci rimanevano impigliati. In quei tempi era un passatempo, oggi impensabile,
vietato, e retaggio di un mondo rurale scomparso.
Capitolo III
Il podere dove abitavamo, si chiamava il Giuggiolo. La casa era molto grande, come tradizione al
piano terra vi erano le stalle per i manzi e i suini, il pollaio, la cantina, il forno e il granaio. Nell’aia
vi erano i pagliai del fieno, che in genere davamo ai manzi, e conigli, nei mesi invernali in cui non
avevamo il foraggio dei prati verdi della stagione primaverile. La paglia ottenuta dalla battitura dei
frumenti, l’usavamo nelle stalle per le lettiere dei manzi, suini, conigli. Delle scale esterne portavano
a una loggia (dopo cena di frequente da lì ammiravamo le luci di Chianciano), poi si accedeva a
una gran cucina, con un focolare quasi sempre acceso. Dal centro si apriva un corridoio molto lungo,
con ai lati le camere, in fondo il gabinetto, ciò evitava di uscire la notte, come invece avveniva
in molte case coloniche. Nella casa non avevamo la corrente elettrica, ci facevamo luce con candele,
lumi a olio e carburo, che la nonna quando iniziava a fare scuro, mi chiedeva di accenderle.
E questa fu, in effetti, una delle storture della nostra Italia, in molte zone rurali infatti la luce verrà
portata quando noi mezzadri avevamo già abbandonato la terra per trasferirci nei centri industriali.
Dopo cena, in inverno, lo zio Ezio, giocava con noi ragazzi frequentemente riuniti davanti al fuoco,
e raccontava delle storie. La guerra era finita da pochi anni, ma era come stata rimossa, sarà così ancora
per molto, poi crescendo, per mezzo di letture, e delle domande che facevamo ai nostri familiari
venivamo a conoscenza di molti avvenimenti, che avevano causato dolore, lutti, e sofferenze nella
popolazione di tutto il paese.
Nelle colline più alte del podere, in alcune parti dei campi, la terra era composta da argille, da creta
di varie sfumature e mista a tufo. Si formavano biancane, calanchi, cretti, simili alle terre della vicina
Val D’Orcia, erosi dal tempo, dalle piogge, e dagli altri agenti atmosferici.
In quei terreni poco fertili a stento crescevano cipressi, erbe selvatiche, mentastre, ginestre; essi erano
ospitali solo per bisce, farfalle, e uccelli. Comunque avevamo molta terra fertile, e coltivavamo
in abbondanza: grano, avena, orzo, segala, favetta, grano turco, canapa, lino, prati di erba medica,
poi cresceva spontanea un’erbacea molto alta che quando fioriva alla fine della primavera di un bel
rosso, rendeva i campi splendenti. Avevamo poi le viti, che nella zona di Montepulciano sono una
cultura secolare, avevamo dei campi con dei terrazzamenti, con molti olivi che ci davano dei buoni
raccolti di olio. A valle, lo zio Ezio, con ingegno, scavando un piccolo fosso dal Marmo (rio che
scorreva dalle colline sulle alture tra Chianciano e Montepulciano, degradando poi verso il piccolo
lago nella Chiana) ci aveva assicurato acqua a sufficienza per gli ortaggi, granoturco, lino e canapa,
ormai non più usata per lenzuoli, ma per realizzare funi e altri cordami per l’uso agricolo che noi
portavamo al macero nel Salcheto, un torrente, con acque più profonde, che scendeva dal poggio di
Montepulciano. Vi erano nel podere alcune sorgenti spontanee in cui gli uomini periodicamente,
con i pantaloni arrotolati fino alle ginocchia, e scalzi, si calavano per ripulirle dalla mota. Così, occasionalmente
potevamo anche dissetarci e usare l’acqua anche per innaffiare o in primavera per ramare.
Intorno ai bordi piantavamo i salici che poi usavamo per la legatura dei tralci delle viti e per
fare delle ceste.
Nel 1953 mio zio Gino si era risposato, la nuova moglie si chiamava Gina.
Quando arrivavano i mesi estivi poichè le ore di luce erano molte, il lavoro nei campi per gli adulti
a volte si protraeva anche dopo cena. Sempre in quei mesi e, se era bel tempo, anche ad inizio autunno,
quando eravamo nei campi più lontani dalla casa, a volte una delle zie andava a prendere il
pasto per pranzare, che la nonna aveva già preparato, e lo consumavamo sul luogo di lavoro, così da
evitare di perdere tempo. Ancora oggi è vivo in me il ricordo di quei giorni, la figura del mio babbo,
piegato sul coltro tirato dai buoi, e io che lo seguivo silenzioso ma contento di essergli vicino. O le
mie care zie, a fare lavori pesanti, alcune volte a imprecare, con carichi di erba o granoturco sulle
spalle ricurve, con ai piedi calzate delle scarpe alte di cuoio, con suole spesse e rinforzate in cima
con una piccola piastra di ferro che il terreno fangoso rendeva pesanti e le faceva camminare con
molta difficoltà per portare il foraggio al carro. Avevano circa 30 anni, ma apparivano molto più
vecchie per la fatica quotidiana. Oltre al lavoro nel podere, avevano il loro impegno di accudire tutti
noi, di lavare gli indumenti, rammendare, stirare. Le zie erano poi provviste di una macchina da cucire,
come molte donne in quei tempi, e comprando delle stoffe al mercato o acquistandole dai venditori
ambulanti che giravano per le campagne, cucivano indumenti e adattavano vecchi abiti, in
particolare per noi ragazzi. Nel periodo in cui avevamo la frutta nel podere, specialmente susine e
pere, ne facevano delle marmellate che noi ragazzi consumavamo di frequente nei mesi invernali.
Spesso realizzavano anche dolci. A intervalli, facevano anche il sapone per il bucato, quello da usare
per noi persone lo compravamo, quello che veniva fatto dalle zie, contribuiva molto per i risparmi
nella famiglia.
Capitolo IV
Sono anni di duro lavoro, gli adulti sono impegnati a dissodare terre fino allora incolte, si spezzano
le schiene dalla fatica. Per alleviare tutto ciò vengono aumentate bestie nella stalla, e vengono acquistati
attrezzi agricoli, così da rendere più sopportabile la fatica manuale.
Io e mio cugino Ademaro avevamo circa 9\10 anni, e, nel tempo libero dalla scuola, iniziavamo a
dare il nostro contributo portando a pascolare i suini o i manzi ad abbeverarsi alla fonte, innaffiando
l’orto, cogliendo l’uva, olive, tutto ciò che non richiedeva molto sforzo, vista la nostra giovane età.
Nel 1955 mio zio Ezio, e sua moglie Elena, ebbero una coppia di figli, li chiamarono Moreno e Morena,
così la famiglia divenne più numerosa.
In quel tempo trascorso, ogni tanto il mio babbo, quando andava a fare visita alla mia mamma all’ospedale
psichiatrico di Arezzo, portava anche me. Il viaggio era molto scomodo, dovevamo andare
alla stazione di Montepulciano, distante alcuni km, in quelle alte colline che si affacciavano in Val
di Chiana, attraverso vie bianche e ghiaiose. La facevamo con la bicicletta di mia mamma a cui il
babbo aveva adattato una tavola con la funzione di canna su cui io mi sedevo. Era lui che, con tanta
fatica spingendo sui pedali, ci portava entrambi a prendere il treno. Raggiunto l’ospedale, le visite
avvenivano sempre in presenza di medici e infermieri; molte volte la mamma era così confusa che
restava in silenzio tutto il tempo. Le condizioni all’interno della struttura cambieranno solo un decennio
dopo. Ogni volta, al ritorno da questi incontri, ero molto triste e sentivo la sua mancanza.
Scorreva il tempo, quando nel gennaio\febbraio 1956 ci furono nevicate e gelate eccezionali che ancora
oggi vengono ricordate. In quelle colline, dove abitavamo oltre i trecento metri, vi era una coltre
di neve alta quasi un metro e rimase così a lungo che una volta accudito le bestie, ogni attività
nel podere fu interrotta, anche le scuole furono chiuse per molti giorni. Poi i contadini unendosi,
riuscirono ad aprire dei passaggi attraverso i quali a piedi riuscivamo a raggiungere il paese. Ricordo
avevamo venduto dei suini, ma il camion non poteva raggiungere la nostra abitazione, allora mio
babbo, gli zii e le zie li misero dentro delle balle e caricati sulle spalle, li portarono fino alla via
principale.
Con quella condizione disagevole delle vie, era difficile procurarsi l’acqua per uso domestico.
Eravamo costretti, con delle brocche, ad andare all’acquedotto, che scendendo dalle sorgenti del
vivo sull’Amiata, attraversava il podere. Serviva molta acqua per lavarci noi persone e lavare gli
indumenti, non potevamo usare il carro perché le ruote affondavano nel fango, allora i nostri
genitori con dei tronchi fecero una rudimentale slitta, e, fissato un tino di legno, poi il tutto trainato
da buoi, ci permetteva di procurarci l’acqua.
Nei mesi invernali, quando i lavori nei campi erano impossibili a causa del maltempo, mio zio Ezio
mi insegnava, al riparo in una capanna o nella stalla al calore delle bestie, fare stuoie, panieri o
rivestire dei fiaschi. Raggiunti i 12 anni, e finita la scuola elementare, di tutta la classe, solo due
alunni continuarono gli studi, io e mio cugino, a quel punto partecipavamo insieme ai nostri
familiari a quasi tutte le attività nel podere.
Solo nel 1962 la scuola sarà obbligatoria fino ai 14 anni.
Di tutti noi figli della nuova generazione io ero quello con l’età maggiore, quindi lo zio Ezio mi
iniziava a lavori come la potatura delle viti o zappare nell’orto o altre colture, farmi provare l’uso
della vanga. Questo lo fece dopo che io avevo insistito, mi diceva: “è un lavoro da persone adulte”;
era molto premuroso nei miei riguardi, così come lo erano tutti nella famiglia.
Frequentemente con mio cugino Ademaro, nel periodo della fienagione in quelle colline assolate,
con il forcone giravamo l’erba falciata per farle appassire. Ci stancavamo facilmente, e per riposarci
cercavamo l’ombra di rare querce che crescevano in quei poggi.
Arrivava la mietitura e mio zio Gino, con i buoi attaccati alla falciatrice, lo vedevo come un
funambolo traballare sul sedile, rare volte gli capitava di cadere, fortunatamente, senza
conseguenze.
Noi familiari lo seguivamo, nel raccogliere e fare dei fasci di grano, avena, orzo, che ci
impegnavano una decina di giorni, poi facevamo delle bighe nel campo, e, dopo un po’ di tempo,
con i carri trainati dai buoi e vacche, lo portavamo nell’aia per la trebbiatura.
Questa era un’occasione dove la partecipazione al lavoro era condivisa con gli altri contadini.
Era uso lavorare in turni di un’ora per ogni gruppo perché i raccolti erano abbondanti ed alle volte la
battitura durava più di un giorno. Ad una di queste, cui io partecipavo, da un nostro vicino, nell’ora
di pausa mi addormentai stanco all’ombra di una siepe. Durante le ore seguenti uno dei compagni di
lavoro, tutti adulti, mi disse: “non ti abbiamo svegliato”, avevo 13 anni.
Nelle aie, in quei giorni della battitura, durante il lavoro vi erano delle pause in cui venivano
distribuiti, principalmente da giovani donne, acqua, biscotti, vermut e vinsanto.
In molte famiglie il pranzo o la cena era molto atteso: venivano serviti maccheroni, tacchino, oca,
ed alcuni dolci fatti in casa. In quei tempi i soldi per fare acquisti erano pochi ma almeno il cibo lo
avevamo a sufficienza. Avevamo molti animali da cortile anatre, oche, polli, faraone, conigli,
tacchini e le uova erano sempre disponibili, due o tre volte la settimana mangiavamo la carne, poi
pasta secca comprata, inoltre le zie o la nonna, facevano con la pasta fresca anche i pici e i
maccheroni, tagliolini, polenta, fagioli, patate, minestra di pane, baccalà, acciughe, allora cibo a
buon mercato. Avevamo anche molte verdure, insalate varie, pomodori, sedani, cipolle, agli,
melanzane, peperoni, zucche, porri rape, ravanelli e cavoli di molte specie.
Infine lo Zio Gino, quando andava nei mercati nei paesi vicini al lago Trasimeno, acquistava il
pesce di acqua dolce, poi non mancava mai la salatura annuale del maiale.
Capitolo V
In quegli anni nelle campagne si inasprirono le lotte con i proprietari dei poderi per la divisione dei
raccolti. Vi erano scioperi mentre si svolgevano le trebbiature, con interventi delle forze dell’ordine
per far riprendere il lavoro.
Malgrado tutte le difficoltà, nel territorio, le famiglie e persone, erano molto uniti: se capitava che
alcuni avessero difficoltà a mandare avanti il lavoro dei campi, vi era sempre un aiuto spontaneo
degli altri contadini tanta era la voglia di migliorare le condizioni di quella realtà, come di gran
parte del paese.
La maggior parte della popolazione, tassandosi con delle piccole somme, contribuì alla edificazione
di un circolo, chiamato “la Stella”, dove fu aperto un piccolo bar e in una stanza installato un
televisore, l’unico fino ad allora era solo nella casa del prete. Erano gli anni in cui c’erano
trasmissioni come il festival di Sanremo con i cantanti melodici, tanto in voga in quel periodo, o il
musichiere e lascia o raddoppia, dove noi abitanti si assisteva molto numerosi. Altri momenti di
svago erano: il gioco delle carte, delle bocce, la ruzzola, che era un disco di legno dove
avvolgevamo una corda poi, fissata una mano, lanciavamo con una serie di tiri nella via tortuosa che
univa il borgo di Cervognano al paese di Acquaviva, noi ragazzi ci passavamo interi pomeriggi. Da
parte della popolazione adulta vi era molta voglia di impegnarsi, liberi dal lavoro dei campi, uomini
e donne, mettevano in atto alcune iniziative, in una stanza del circolo crearono una sede dell’U.D.I.,
“unione donne italiane” orgoglio di un piccolo borgo di quelle campagne. Erano anni che
incominciavamo a interessarci di politica, calcio, ciclismo, ricordo noi ragazzi che ci
appassionavamo quando la radio e la televisione davano le notizie. Portavamo quei berretti colorati
di tela e la benda ceroloide e ognuno tifava per il proprio idolo e la propria squadra. In quel
fermento di idee, alle manifestazioni del primo maggio la presenza dei contadini era molto sentita e
numerosa, al prato, il luogo di raduno presso la porta sud all’ingresso alla città di Montepulciano. Vi
era poi nel periodo estivo, da parte della popolazione della campagna, accorrere dopo cena in massa
alle rappresentazioni del bruscello, una sorta di teatro popolare che ha le sue origini nel medioevo
esso aveva e ha ancora oggi luogo in piazza grande e i suoi i protagonisti sono gli abitanti stessi.
Dopo la trebbiatura, nel podere, vi era meno urgenza nei lavori. Era per me l’occasione di passare un
periodo nel paese natio di Cignano, anche luogo della famiglia del mio nonno materno. Lui era
rimasto vedovo prima degli anni 40. Mia mamma aveva altri due fratelli e una sorella, solo il
fratello maggiore era sposato con un figlio. Il nonno Gabriello era il capofamiglia, vivevano nel
nucleo altri due suoi fratelli sposati con figli, poi la vedova con molti figli di un suo fratello morto
al fronte di guerra nel 1944. Il mio babbo mi raccontava che quando si era sposato erano 24
persone, in quegli anni era frequente che le famiglie fossero molto numerose, con molta gioventù, e
quindi molte braccia da lavoro, era più facile mandare avanti un podere.
Noi ragazzi e ragazze, in una fascia di età dai 12 ai 16 anni, nei pomeriggi di luglio ed agosto
andavamo in una valle in mezzo alle colline dove vi era un piccolo lago che serviva per uso irriguo,
e lì che era il nostro mare, facevamo il bagno e i primi tentativi per nuotare. Il sabato e la domenica,
lungo la via che conduceva al paese di Centoia, gli adulti spianato il terreno e messi dei pali per
dare l’aspetto di un piccolo campo, rendevano possibile a noi ragazzi di tirare i primi calci a un
pallone.
Alcune cugine di mia mamma, ragazze già adulte e coetanee di altre famiglie che abitavano fuori
dal paese, la domenica o altri giorni di festa, per andare alla messa o recarsi a ballare in un piccolo
circolo o in casa di altri contadini, mettevano le scarpe buone in una borsa, perché le vie erano
polverose d’estate e fangose d’inverno.
All’uscita della messa di mezzogiorno dalla chiesa percorrevamo circa duecento metri fino a un
luogo chiamato la “Sassaia” dove si ergeva una croce di ferro, lì, giovanotti e ragazze si
incontravano e nascevano le prime amicizie e approcci amorosi.
In famiglia da mio nonno coltivavano un podere con molto terreno ed alcuni ettari di bosco, oltre le
colture tradizionali, si aggiungeva anche quella del tabacco, in più avevano anche un bel gregge di
pecore.
Mi è rimasto vivo a distanza di tanto tempo, il buon sapore della ricotta calda che preparava la zia di
mia mamma, Isola, appena tolta dal fuoco e quello del formaggio e il buon odore che questo
emanava nella stanza dove stagionava, ne rimanevi inebriato.
Capitolo VI
Nell’estate avanzata, al ritorno al podere, il babbo e gli zii iniziavano a coltrare i terreni per la
semina dei frumenti che avveniva in autunno. Frequentemente con mio babbo o mio zio Gino, i
buoi al coltro e le vacche a traino, guidate da me e da mio cugino, aravamo circa 6 ettari, e ci
impiegavamo molto tempo. Il mio zio Ezio con la vanga e le mie zie con la zappa, avevano il loro
faticoso lavoro di sistemare la terra nei filari di viti e olivi o zappare altre culture. Raramente
chiedevamo l’impiego del trattore, perché le possibilità economiche che erano scarse. All’inizio di
ottobre eravamo occupati nella vendemmia: vi era prima la raccolta dell’uva che serviva dopo essere
stata appassita per fare il vin santo poi moscato, poi di altra uva da tavola che si consumava come
frutta. Quella per il vino, ogni giorno, dopo che il fattore era presente alla divisione per la quota
spettante ai proprietari (gli Avignonesi, storica famiglia di Montepulciano), il mio babbo e lo zio
Gino con il carro tirato dai buoi, carico di bigonce, la portavano alle cantine che si trovavano oltre
600 metri nei pressi della fortezza. Io e mio cugino Ademaro, sistemati alla meglio, trasportati
insieme al carico approfittavamo per passare un po’ di tempo in città.
A fine ottobre, iniziava la semina dei frumenti: grano, orzo, avena, segala, i terreni arati venivano
spianati con degli erpici, così per essere pronti per la macchina che spargeva le sementi. Non
sempre il tempo era clemente e alcune volte le zolle erano così dure che dovevamo usare la zappa
come una mazza per frantumarle, se invece pioveva molto capitava che le bestie affondassero con
tutte le gambe e solo usando delle pertiche sotto la pancia e facendo leva ponevamo fine a quella
sofferenza.
Terminata la semina coglievamo le olive anche se non abbondanti come prima della gelata.
Raccoglievamo ghiande ed integrate da bietole, zucche dei pastoni fatti con le farine delle nostre
granaglie governavamo tutti i suini e i manzi, specialmente nei mesi invernali, perché nei campi vi
era poco di cui cibarsi.
Circa a metà dicembre il suino era destinato all’ingrasso, e, salato per il consumo familiare, veniva
ucciso. Ancora non era obbligatorio usare la pistola, veniva fatto con un pugnale appuntito che
aveva la lama da ambedue le parti. Ricordo lo zio Gino, mi chiese se volevo provare, io assentii, e,
guidato da lui, lo facemmo. Lì in mezzo a bestie ed animali avevamo l’età per fare esperienze,
assistendo a nascite ed accoppiamenti come un fatto naturale.
Nel periodo delle feste natalizie, eravamo più assidui a frequentare la parrocchia. Un insegnante da
Acquaviva era molto abile nell’allestire il presepe e organizzare delle recite con semplici commedie
comiche a cui ragazzi ed adulti assistevamo contenti. Di frequente ero io che andavo nel bosco e
sceglievo l’albero per il natale, a cui attaccavamo delle cose semplici. Uno dei giochi nel periodo
delle feste era far scivolare un panforte di media grandezza su un tavolo, vinceva colui che dopo
una serie di lanci raggiungeva l’estremità per più volte e questa era una tradizione che si è
tramandata fino ai nostri giorni, specialmente nella città di Pienza.
Stavamo alla soglia della fine degli anni ‘50 e nell’Italia di allora vi era già l’abbandono dei poderi
da parte dei mezzadri, era già iniziato il boom economico e si accorreva nelle città e nei poli
industriali in cerca di un po’ di benessere. Anche lì a sud della provincia era iniziata l’emigrazione
interna, già alcune città si erano trasferite nelle città di Siena, Arezzo Roma. Nel cuore della Val di
Chiana molti contadini avevano iniziato a trasferirsi nella città tessile di Prato.
Anche la nostra famiglia dopo che per un anno ci eravamo spostati in un podere nella zona di
Cortona, sentito il parere di noi giovani, scelse di abbandonare la terra sperando per noi un futuro
migliore e con meno sacrifici di quello che avevano fatto i nostri genitori.
Capitolo VII
Di tutta quella infanzia trascorsa in quei luoghi, oggi vicino ai settanta anni, mi è rimasto caro il
senso di solidarietà, tutta l’onestà e l’umanità della gente, il rispetto generale per gli altri, come nota
positiva di quei tempi. Mi vengono alla mente tutti i sapori dei cibi, i profumi che sprigionava il
pane, i dolci nel periodo di Natale e Pasqua, fatti con farina, uova, ingredienti genuini, e cotti nel
forno a legna.
Ricordo poi gli odori della terra arata, quello del fieno appassito, il gradevole profumo delle
ginestre fiorite, quello del mosto, delle stoppie dopo la pioggia, o quello forte e sgradevole del
letame e delle urine delle bestie.
Alla fine del 1960 avevo compiuto 15 anni e nell’anno nuovo tutta la famiglia si trasferì a Prato.
All’inizio, come è innato per le genti di campagna, ci sembrava un cambiamento radicale, allora i
nostri genitori con senso di responsabilità scelsero un piccolo podere, la terra era poca così io e mio
cugino, nel tempo di un anno entrammo in fabbrica nel settore tessile, trovarono lavoro nell’edilizia
anche i miei zii Ezio e Gino, la nonna continuava ad essere cara a noi tutti e preziosa per i miei
cugini più piccoli. Il mio babbo e le mie zie mandarono avanti il podere fino al 1966, in quell’anno
con l’alluvione di Firenze eravamo stati danneggiati anche nelle nostre zone, il torrente Ombrone
aveva rotto gli argini e allagò le terre, il paese e i luoghi circostanti, la nostra famiglia in quella
circostanza spiacevole decise di lasciare definitivamente la terra e quel mondo contadino. Avevamo
i nostri appartamenti quasi ultimati, andammo ognuno nella propria casa ma ancora insieme.
Quegli anni del boom economico portarono un po’ di benessere dato dal lavoro retribuito che
permise trasformazioni radicali nei comportamenti, nel modo di pensare, nella vita sociale. Noi
come giovani siamo sorpresi e curiosi di tutto ciò, con voglia di scoprire e conoscere. Io con un po’
di soldi, frutto del lavoro in fabbrica, mi ero comprato un motorino e andavo spesso a Firenze, dove
il fratello di mia mamma abitava dopo che fu assunto come custode della biblioteca nazionale, e,
alcune volte con lui, in seguito anche da solo, andavo in giro alla scoperta dei luoghi simbolo della
città.
Anche il mondo della musica era totalmente cambiato con i Beatles e altri cantanti e cantautori
italiani, adesso anche il juke-box contribuiva a diffonderla, nei bar, circoli, spiagge, il genere
melodico che ci aveva accompagnato in quegli anni era quasi scomparso. Lo sport praticato come
spettatori coinvolgeva molta gente, anche il cinema conosceva un periodo felice, così come il modo
di vestirsi, con un atteggiamento informale, con jeans e minigonne. Così come acquisti di beni come
elettrodomestici e automobili.
Molta gente nell’estate aveva l’abitudine di fare gite alla scoperta di luoghi e cose nuove, spesso le
famiglie passavano le domeniche al mare e si frequentavano pizzerie e ristoranti.
Sono poi anni anche di conquiste sociali importanti, con lotte di massa, scontri duri nelle piazze
contro le forze dell’ordine per i diritti sindacali, il divorzio prima e poi l’aborto.
Se facciamo riferimento alla fine degli anni ‘60 ai sogni e alle speranze di quel tempi, dobbiamo
essere grati di molte conquiste che sono state ottenute, come avere portato un paese vocato nella
maggior parte della popolazione dedita all’agricoltura e pastorizia, con la guerra subita, la povertà
che regnava, ad un grado di vita dignitoso, si deve dire grazie alla generosità e ai sacrifici fatti dalla
generazione dei nostri genitori e, in parte, di noi figli.
Capitolo VIII
Una riflessione.
L’abbandono repentino delle campagne in quei tempi e il modello di coltivazione di monocolture
intensive, la mancanza del contadino, che con sapienza per secoli aveva svolto opera di
mantenimento dell’ambiente, sul territorio, l’incuria delle istituzioni a tutti i livelli per decenni
riguardo opere di prevenzione, ma anche un diffuso individualismo e comportamento di
malcostume generale, hanno contribuito con i rifiuti urbani ad inquinare fiumi, molte coste del mare
e con quelli tossici smaltiti abusivamente in terreni agricoli ed in cave dismesse, insieme a quelli
emessi da alcuni poli industriali alle periferie delle città a sviluppare patologie anche mortali e
portato il paese ad un preoccupante degrado ambientale.
In ultimo la piaga della corruzione dilagante che ha tolto risorse alla comunità, il venire meno di
conquiste sociali, insieme alla crisi economica che ha portato alla perdita di molti posti di lavoro e
fatto scivolare molte famiglie nella povertà.
Note.
Nomi:
(1) Marino – Mio babbo
(2) Marina – Sorella di mio babbo
(3) Fidalma – Prima moglie di Gino
(4) Leonilde – Mia mamma
Aldiviero Capuccini