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Il salto del diavolo (Roberto Tozzini)

Il cielo era terso e il sole riscaldava le sue ossa di vecchio. Da ogni lato la vista era libera. Si potevano vedere, più o meno lontane, valli e colline, boschi e radure, strade e case. Ad ovest scorse un gregge di pecore o almeno pensò che lo fossero più dal loro incedere lento e dal colore di un bianco sporco che non dalla nitidezza della visione. Erano passate da poco le dieci e in quella mattina di maggio tutto sembrava meraviglioso e irreale in quel posto. Era partito da casa due ore prima, aveva fatto un quarto d’ora di auto fra boschi di faggio e castagni e poi si era fermato al Salto del Diavolo, dove lasciava sempre l’auto e proseguiva a piedi. Quel luogo, da cui si dipartiva il sentiero per il Monte Bellavista, aveva una storia che Argante conosceva da quando era bambino e che nelle sere d’inverno, accanto al fuoco, il nonno raccontava a tutta la famiglia. Diceva che molti anni prima Lucifero aveva tentato un ragazzo che saliva al monte a far legna. Il Diavolo gli era apparso sotto le sembianze di una donna priva di vista che gli chiese aiuto. Quello si fermò e le chiese perché si trovasse in quel bosco così lontano dal paese. Lei, con voce rotta dal pianto, rispose che si era persa nel tentativo di andare da sua figlia che stava per partorire. Allora il povero ragazzo si offrì di aiutarla e di portarla dalla figlia e gli chiese dove abitasse. La donna, sempre piangendo, gli mostrò un panno consunto dove vi era ricamata una specie di mappa. Gli spiegò che le serviva per trovare la casa della figlia ma che doveva aver sbagliato sentiero e adesso non sapeva dove si trovasse. Il ragazzo guardava e riguardava quella sorta di mappa, la rigirava tra le mani per trovare un’attinenza con quei luoghi ben conosciuti. Faceva qualche passo a destra, poi in avanti, indietro, a sinistra. Fu in uno di questi movimenti che, essendosi avvicinato al ciglio della scarpata, distratto dall’osservazione della mappa, si sentì spinto in avanti e non poté fare altro che cadere nel baratro sottostante. Batté sulle rocce una, due, molte volte e di lui ritrovarono solo il cappello sul bordo del dirupo. Su una roccia alcuni giurarono di avere visto il pentacolo, la stella a cinque punte inscritta in un cerchio. Il simbolo del Diavolo! Da piccolo, a quel punto del racconto, Argante si era già rifugiato fra le braccia rassicuranti di sua madre che gli sorrideva tranquillizzandolo. Ma il nonno proseguiva dicendo che dopo il taglialegna erano caduti giù Giannino della Bella e poi Autimio e poi ancora la Leda, Ginetto, Mariolino e la Giovanna, tutti bambini a giro a cercar funghi e altre risorse del bosco. Tutti poveri, tutti presi di mira da Lucifero in persona che li attirava in quel posto e poi li gettava giù dal dirupo. Il sangue si raggelava nelle vene di Argante a pensare a quel diavolo che sotto ogni tipo di sembianza umana uccideva quei poveri cristi. Così quando andava a giro si guardava continuamente intorno e se incontrava qualcuno se ne scappava veloce come il vento.
Ma erano passati tanti anni da allora e la paura e le corse, l’esuberanza e la spensieratezza avevano lasciato il posto alla calma e alla lentezza, all’apatia e alla malinconia. Adesso, in cima al Bellavista, scrutava ogni luogo che vi si poteva scorgere. Riconobbe le povere case di Giannino e della Leda, più in là, sul versante opposto, i campi che furono di Ginetto e là in valle, all’incrocio dei due torrenti, il mulino di Mariolino. Tutto lo portava a pensare solo ed esclusivamente a quelle anime candide che erano volate giù dal Salto del Diavolo tanti e tanti anni prima e che lui non aveva nemmeno conosciute. Perché allora pensarci ora a distanza di oltre settanta anni? Si dette una risposta immediata. La morte stava arrivando e lo preparava al grande salto. Grande quanto quello fatto da quei poveri sventurati. Doveva essere proprio così, pensò guardando ancora una volta la casa della Leda. Il nonno diceva che era una ragazzina bionda, dal corpo esile e dagli enormi occhi azzurri, una vera rarità per quei posti! Aveva mani affusolate e la pelle candida di una principessa ma era solo figlia di contadini e allora non poteva proteggersi con abiti e maniche lunghe e le sue braccia e le gambe si scottavano al sole. Ma per pochi anni perché fu a 11 anni che volò giù e, come per gli altri non se ne trovò più traccia. Fu allora, per rivalsa verso la morte che aveva rapito Leda e gli altri e che adesso voleva impossessarsi di lui, che ebbe l’idea di tornare al Salto del Diavolo. Si incamminò con rinnovata scioltezza, prendendo il sentiero da sempre conosciuto e scartando fra le varie pieghe che lo stesso prendeva.
«Certo!» Pensò con agilità ritrovata.
«Ma certo!» Replicò come a rafforzare il concetto.
«Anche a distanza di tanti anni si dovrà pur trovare qualcosa di loro, un brandello di vestito, una scarpa, delle ossa!»
E non si accorse, assorto in quel pensiero, che stava quasi correndo giù in discesa per il sentiero del bosco, quasi come fosse tornato Argantino e non avesse più dolori e acciacchi. I piedi calcavano con sicurezza le pietre e la terra del sentiero, con il cappello calcato sulla fronte a guisa di guappo e il piglio di un ragazzo. La morte non doveva aver ragione del tutto di quelle anime, lui ne doveva ritrovare i resti e dar loro degna sepoltura. In meno di un’ora fu al Salto del Diavolo e non poté fare a meno di sporgersi dal precipizio. Ebbe un groppo al cuore! Il baratro sembrava infinito e le rocce sottostanti sembravano cascate prive d’acqua. Balzi l’uno dopo l’altro, senza nessuna speranza di salvarsi per chi vi fosse caduto. Ora capiva cosa intendeva il nonno nel dire che i disperati avevano battuto sulle rocce una, due, molte volte. Impossibile che non fosse così! Si ricordò che in macchina aveva una vecchia corda da roccia. Aprì la bauliera, la tirò fuori da sotto una scatola dove erano riposti alla rinfusa gli accessori per l’auto e gli stivali per l’orto e la srotolò per la prima volta. Era lunghissima, a spanne doveva misurare cinquanta metri, l’ideale per calarsi giù di roccia in roccia! Questo pensò e si legò ad un capo della corda creando con essa una specie di imbraco. Poi passò l’altro capo al di là del tronco di un bel faggio e provò a scendere tenendo la corda intorno al corpo per alleggerire lo sforzo delle braccia. Piano, piano mollava appena la stretta delle mani e il suo peso lo faceva scendere nel dirupo. Si appoggiava con i piedi alla parete come aveva fatto tanti anni prima e gli sembrò tornato semplice e naturale. Stava spalle al burrone, guardando la parete e, di tanto in tanto, giù il precipizio. Arrivò alla prima, strettissima cengia, si spenzolò ancora più indietro per vedere più giù e altro non vide che la seconda, più ampia ma scoscesa verso il baratro. Vi cercò con lo sguardo dei resti umani ma non vide assolutamente niente. Controllò quanta corda pendeva sotto di lui e giudicò che non avrebbe avuto difficoltà a raggiungere la cengia sottostante. Scese, con lentezza esasperante finché non posò i piedi sulla pietra e si accorse subito della difficoltà di stare in piedi a causa della notevole pendenza verso il baratro. Si afferrò saldamente a uno spuntone di roccia e tirò la corda che pendeva dall’alto che piombò giù battendogli addosso e proseguendo verso il basso. Fu una brutta impressione come di essere travolto e portato nell’abisso. Recuperò con la mano libera l’estremità della corda e la passò intorno a una radice che spuntava fra le rocce. Si disse che era sufficientemente robusta per sostenere il suo peso e vi si affidò. Si sporse allungando le gambe e guardò in basso. Vide la cornice di roccia che era sotto di lui e giudicò che fosse ad una ventina di metri di distanza. L’avrebbe raggiunta con un solo tiro di corda? Pensò che doveva provare. E cominciò a scendere. Dio quant’era alto il tratto che lo avrebbe portato alla cengia sottostante! Guardava la corda sotto di lui e gli parve che non arrivasse fino a lì. Cominciò a dubitare della sua precedente valutazione ma caparbio com’era volle continuare. Scendeva con tale lentezza che la cosa gli faceva sembrare lo spazio mancante tanto più lungo e irraggiungibile. Poi, circa a metà distanza, gli sembrò di notare qualcosa di strano dietro uno spuntone che gli parava un tratto della cornice di roccia sotto di lui. Quando arrampicava sapeva fare il pendolo con la corda. Ci sarebbe riuscito ancora? Ma ormai era in gioco e giocò. Cominciò a darsi una spinta verso sinistra e muovendo i piedi sulla roccia a strapiombo assecondò quel movimento. Poi il suo stesso peso lo riportò a destra e lui saltellò con le gambe perpendicolari alla parete per imprimere maggiore forza alla spinta. Iniziò così un pendolo sempre più ampio e lui che guardava un po’ giù a scorgere cosa avesse creduto di vedere prima e un po’ la roccia dove poggiava i piedi per darsi una nuova spinta.
«Ecco là!» Gli scappò di bocca come gridasse ad un amico invisibile!
Aveva visto l’imboccatura di una tana o forse era solo una spaccatura della roccia proprio sotto lo spuntone. Fece il pendolo molte volte e ogni volta era più certo di aver visto qualcosa di interessante ma mai riuscì ad essere sicuro di cosa fosse realmente. Per pochi attimi la cosa appariva per essere subito sostituita dalla roccia sporgente. Ma qualcosa doveva pur essere e magari vi potevano essere rimasti intrappolati dei resti di quei poveretti per tutti quegli anni. Vide che la cengia era più ampia in quel punto e che pendeva verso il monte. Se qualcosa l’avesse colpita sarebbe rimbalzata all’interno, pensò. Gli occhi scuri spiccavano su un viso magro in gran parte coperto dalla folta barba bianca. Il cappello calcato sulla fronte sembrava un tutt’uno imprescindibile con il volto dove sporgeva un naso leggermente curvo, come il becco di un rapace. Aveva mani grandi, irsute e scarne. Mani che avevano lavorato la terra fin da bambino e che avevano subìto le angherie del freddo e del sole, della pioggia e del vento. Mani che non si erano mai risparmiate, che avevano tribolato e sofferto silenziosamente com’era d’uso in quella terra. Quelle mani stringevano e a momenti lasciavano un po’ la presa della corda, per scendere verso quel pertugio che era divenuto in un attimo la sua ragione di vita. Pensava solo a quei bambini, a quegli attimi tremendi che dovevano aver vissuto prima della fine, all’impossibilità di avere una degna sepoltura dove i propri cari avrebbero potuto piangerli. Poi pensò che erano, come lui, gente di altri tempi, di umili origini, che non mettevano fra le proprie virtù la malinconia e le facili emozioni. La vita era dura a quel tempo, i bambini diventavano adulti nel giro di sette o otto anni o si perdevano, come le anime che andava cercando. La sopravvivenza era un lusso e un lutto era previsto, quasi annunciato alla nascita. Forse nessuno li pianse troppo e comunque una sepoltura era un lusso per niente scontato. Bastava il ricordo, una preghiera prima di andare a letto e poi la lotta per la vita proseguiva, serrata e infinita.
Sentì toccarsi il sedere e istintivamente lo ritrasse. Guardò in giù e vide che già era a contatto del sasso, praticamente a sedere sullo stesso. Di corda ne era avanzata forse mezzo metro e si disse fortunato. Ma fu in quell’istante che gli venne una lucida sferzata di realtà! Come sarebbe tornato su? Come avrebbe risalito quel dirupo? Che idiota a pensarlo solo adesso, a non porsi il problema prima di calarsi giù! Forse avrebbe potuto tentare di scendere fino in fondo allo strapiombo ma chissà se avrebbe sempre trovato un punto di sicurezza dove assicurare la corda e se i salti sarebbero stati sempre inferiori alla sua lunghezza? Guardò giù ma altro non vide che rocce e ancora rocce quasi senza fine. Decise di lasciare la corda attaccata alla radice sovrastante, se la sciolse dalla vita e legò i due capi fra di loro. Su quella pietra si stava bene in piedi, anzi si veniva addossati alla roccia e la cosa gli sembrò rassicurante. Decise che era lì per cercare i resti delle anime perse ed allora succedesse quel che il destino e la sua stupidità gli avevano prospettato.
Si avviò con cautela su quella cornice larga poco più di 20 centimetri, con tutto il corpo a contatto, per non dire schiacciato, verso il monte come a diventare un tutt’uno con esso. Bastava una pietra sporgente che lo portasse con il busto o con il bacino un po’ in fuori che il movimento diventava più impacciato, le gambe tremavano e la mente vedeva il corpo volare giù. Dopo un bel po’,sudato e impaurito, arrivò a toccare con la mano sinistra un vuoto nella roccia. Capì di essere arrivato e tirò un sospiro di sollievo. Voltò lo sguardo da quella parte, vide che l’appoggio adesso era ampio, staccò le spalle dalla parete e guardò il foro nella roccia. Aveva un’altezza di circa un metro e mezzo e la larghezza di circa trenta centimetri. Provò a guardare dentro ma il buio era totale. Pensò di aspettare il pomeriggio quando su quella parete sarebbe battuto il sole. Poi, un po’ come faceva da bambino, cambiò subito idea. Perché aspettare così tanto? Meglio provare ad entrare, forse abituandosi al buio avrebbe visto qualcosa e poi avrebbe potuto sondare il suolo con le mani e i piedi nella ricerca di qualcosa che non fosse roccia. Non era facile entrare in quella fenditura stretta e bassa per uno alto come lui e non più agile come prima. Provò prima ad entrare di lato ma al momento di piegare le ginocchia si incastrò nella roccia. Allora tentò di testa, ruotando il busto e toccando con le mani a terra dentro la cavità. Ma quello spacco sembrava andare a restringersi ed ebbe il timore di rimanervi incastrato per sempre. Non voleva fare la morte del topo e decise di riuscire subito, ansimando più per la paura e per la posizione innaturale che per lo sforzo. Ci mise una decina di minuti a ricaricarsi e mentre stava lì a sedere sulla cengia notò un luccichio in uno spacco al suo fianco. Guardò meglio, sembrava un piccolo oggetto stretto e stondato come incastonato nella pietra.
«Una moneta!» Pensò. Si frugò in tasca e tirò fuori il coltellino che portava sempre con sé. Gli serviva per togliere i funghi dal terreno, per tagliare frasche da usare contro i tafani che in certi periodi assalivano animali e uomini, per tagliare la frutta che si portava per pranzo. Argante nelle sue camminate mangiava solo frutta, soprattutto mele e albicocche d’estate e arance d’inverno. Liquidi ed energia, questo era il suo credo. Il temperino provò a scalzare quell’oggetto metallico dalla roccia ma non era impresa facile perché la terra e piccoli frammenti di roccia depositatisi lì nel tempo avevano come incementato il manufatto metallico. Pensò che quella era una buona cosa. Se l’oggetto era lì da molti anni poteva essere una prova che ciò che aveva raccontato il nonno non solo era vero ma che qualcosa di quei poveri cristi era rimasto. Lavorava di lama come farebbe un bravo archeologo alla presenza di un reperto antico. Toglieva piano, piano piccoli pezzetti di roccia incastrati, scalfiva la terra e soffiava via la polvere per ricominciare di nuovo. Passò quasi mezz’ora prima che l’oggetto si muovesse e allora lo estrasse con delicatezza. In realtà, tranne la parte che emergeva da quella trappola, il resto era ancora pieno di terra. La graffiò con le unghie con attenzione e lentezza fino ad arrivare ad una superficie metallica. La strusciò ai pantaloni per pulirla meglio e venne alla luce, un po’ per volta, quella che credette essere la cassa di un orologio da taschino. Provò a pulire la parte opposta con lo stesso metodo usato per la prima ma si accorse subito che si era sbagliato. Veniva fuori, ad ogni passata sui pantaloni o sulla manica della giacca una sorta di immagine in bianco e nero ed allora capì cos’era. Iniziò a piangere quasi subito. Un pianto che non aveva più liberato dalla morte di sua madre avvenuta trent’anni prima. Pianse di un misto di felicità e di dolore, di pena e di liberazione. Davanti ai suoi occhi era apparsa la foto su ceramica di una bambina bionda e magra dagli occhi grandi e l’espressione seria, la bocca piccola e la carnagione diafana. Capì subito che era la Leda! Dio com’era bella! E come era profondo il suo sguardo. A ragionarci adesso sembrava quasi che conoscesse il suo destino!
Quel ritrovamento dette una verve nuova all’uomo che si infilò come un serpente nella spaccatura, questa volta entrandovi di piedi e spingendosi con le mani. Ad un tratto si accorse di avere sbagliato tutto, che era incastrato all’altezza del torace e non riusciva più a muoversi né avanti né indietro. Si dimenò e urlò, disperato e impotente. Poi, lentamente, l’uscita della grotta sembrò chiudersi finché tutto divenne buio.
«Ciao Argantino, svegliati! Vieni a giocare con noi!»
Aprì gli occhi e vide sette bambini che gli facevano segno di raggiungerli. Riconobbe subito la Leda e gli altri dovevano essere Giannino, Autimio, Ginetto, Mariolino, la Giovanna e il taglialegna.
«Vieni a giocare!» Ripetevano i bambini in coro e lui si alzò con un fisico nuovo, così fresco e pieno di energia, senza l’ombra di un dolore. Anche il suo umore era cambiato, ora era spensierato ed esuberante. Ora si sentiva felice! E corse veloce verso i bimbi.
Il suo corpo fu ritrovato due giorni dopo. Incastrato dentro una fessura della roccia nella parete del Salto del Diavolo.
«Chissà quel vecchio matto che c’era andato a fare laggiù e come pensava poi di tornare su?» disse il responsabile del Soccorso Alpino che aveva recuperato la salma.
Non sapeva che, lontano da lì, Argantino stava giocando.

Roberto Tozzini

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