Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti nel suo Palombella Rossa. Quali parole decidiamo di usare non solo ci raccontano la visione che abbiamo della società ma ci permettono anche di reiterare una certa forma di ignoranza.
Questo è il caso, per esempio, dell’ormai nota locuzione utero in affitto, tanto cara ad alcuni giornalisti vicini ad una certa parte politica. Il 31 gennaio, in occasione di un incontro sulla natalità e intorno al suo famoso Ddl, il senatore Simone Pillon e i suoi sostenitori hanno appellato in malo modo alcune rappresentanti di associazioni femminili “colpevoli”, tra le altre cose, di sostenere l’utero in affitto e quindi di appoggiare una forma deviata di genitorialità.
In realtà è un’espressione sbagliata. Sono pochissimi gli Stati dove la pratica della maternità surrogata è in forma lucrativa (Usa, India, Sud Africa); nella quasi totalità dei Paesi dove è legale, questa pratica è in forma altruistica e i futuri genitori sostengono solo i costi vivi: analisi mediche, avvocati, sostegno e mantenimento della gestante, assicurazioni a tutela di tutti i soggetti coinvolti.
Le formule, poi, sono molteplici e volte ad evitare la schiavitù della partoriente. Per ogni India, tristemente nota per lo sfruttamento, ci sono decine di altri Stati dove la pratica è pulita e controllata, senza traumi per nessuno dei soggetti. Lucrativa o altruistica che sia, l’espressione resta comunque scorretta: gli uteri non si affittano e nemmeno le madri.
L’affitto è un accordo economico tra due soggetti intorno ad un oggetto inanimato, come un appartamento, mentre nel caso della Gpa (gestazione per altri, ndr) l’utero è parte della gestante che partecipa all’accordo come soggetto attivo, capace di autodeterminarsi.
Utero in affitto veicola un’immagine sbagliata e offensiva: quella di una donna che non è proprietaria del suo utero e che non può concludere un accordo, legale e autonomo, circa sé stessa.
Fa riflettere il fatto che sia un’espressione così cara ai detrattori della pratica, proprio gli stessi che affermano di voler difendere la donna. Persino maternità surrogata non è tanto corretta come immagine. Maternità deriva da madre che è un concetto ben più ampio, che va ben oltre i nove mesi di gravidanza: non sono forse madri le donne che adottano o che prendono dei bambini in affidamento?
La visione del mondo di chi usa questi termini pare così evidente: la donna ridotta al suo utero, come prima di tutte le rivoluzioni sessuali e femminili, stavolta non mediante la costrizione (cosa puoi e non puoi fare con il tuo corpo) ma tramite la santificazione estrema di un’esperienza di vita, quella della gravidanza, che è personale e non dovrebbe essere un mezzo per dividerci in squadre.
Cambiando le parole, il risultato cambia.
Gestazione per altri ci racconta un limitato lasso di tempo, importante ma minimo rispetto all’esperienza intera di essere genitore per un’intera vita. Una forma di altruismo estremo e che necessita di controlli ma che resta comunque libero, perché ognuna con il suo utero fa quello che le pare. Non solo.
La Gpa oggi diventa anche un’opportunità per interrogarci sul senso della maternità e sul ruolo della donna nella società. A prescindere che si sia d’accordo o meno con questa pratica, è innegabile che scindere la gravidanza dalla maternità e, meglio ancora, dalla genitorialità nel suo complesso ci offre l’occasione di vedere la gestazione come un’esperienza di vita che non comporta santità o eroismo, che non ci rende migliori come donne rispetto alle altre nostre simili, o genitori migliori rispetto ad altri. È una scelta potente a livello soggettivo ma non ci qualifica come persone all’interno della società.
Smarcare la maternità dalla sua aurea angelica potrebbe liberarci, potrebbe portarci tutti allo stesso livello, non solo tra donne ma proprio tra sessi diversi. Dove starebbe la devianza in una genitorialità libera, uguale e fondata su un sostegno così totale degli uni verso gli altri?
La gestazione per altri resta inaccettabile per chi esalta la gravidanza come ultima (e unica) realizzazione della donna, per chi parla di naturalità negando tutte le altre magnifiche forme di famiglia e vuole riportare la genitorialità al suo ruolo animale, quasi bestiale, antico: quello di una donna-utero che porta in grembo i figli, certi, di un uomo.
Alice Porta