Lorenzo Viani dalla Versilia a Prato

L’opera di Lorenzo Viani approda a Prato. Attraverso 28 fra disegni, pitture, incisioni, una mostra ne ripercorre l’intera parabola artistica, dagli approcci giovanili con l’Avanguardia all’esperienza della Grande Guerra, dal mare della Versilia ai giorni amari in sanatorio. Organizzata dalle Associazioni cuturali Asterisco e ArtInPo, la mostra è visitabile fino al 25 maggio, a ingresso libero, dal mercoledì al venerdì (16,30 – 19), e il sabato e la domenica (10,30 – 13 e 16,30 – 19). Sala Valentini, via Ricasoli 6.

In Italia, l’inappartenenza ha sempre destati sospetti, se non addirittura cattiva impressione. Non essere riconoscibili per etichette, evitare le folle chiassose, sublimare il talento lungo sentieri poco frequentati dalle correnti ufficiali, espone fatalmente a lunghi soggiorni nel dimenticatoio, giustificati soltanto dall’ostinata grettezza dell’ignoranza. È il caso di Lorenzo Viani (1882 – 1936), pittore, incisore, scrittore, pensatore anarchico, orgogliosamente libero fra le sbarre di quella cage aux folles che l’Italia dei primi decenni del secolo scorso già cominciava a diventare.
A distanza di oltre sei lustri dalla grande antologica viareggina dell’agosto ’82, la piccola ma raffinata mostra I segni di Viani, apre nuovi scorci su uno degli artisti a torto meno celebrati del Novecento italiano, visto attraverso le opere inedite di una collezione privata pratese.
Viani fu artista orgogliosamente toscano, legato al territorio, che non tralasciò la nobile lezione dei Macchiaioli, (a Firenze fu allievo di Fattori), per narrare un popolo alla stregua, ad esempio, di Soffici e Martini, ma il tono elegiaco in lui scompare, per lasciare spazio a un’indagine sociale e introspettiva che trova pieno compimento negli schizzi a carboncino, a matita, a inchiostro, del Balena, dei mendicanti, della portatrice d’acqua, personaggi eroici per l’ostinazione con la quale affrontano le fatiche e le umiliazioni quotidiane. Carattere introverso e speculativo, sin dall’infanzia Viani fu attratto dalla natura aspra della Versilia, e non è arduo pensarlo come un novello Barone Rampante, intento a esplorare la darsena della natia Viareggio, le pinete e i boschi del retroterra, allora regno incontrastato e quasi fiabesco di quei personaggi ai margini che ispirarono la sua pittura esistenziale, mirabile strumento per indagare il mistero dell’uomo, con quella sofferenza che appare ineluttabile, sorte predestinata dal volere della Natura che lega l’uomo a un determinato territorio.
Artista dalla non estesa produzione pittorica – in questo vicino a Cristiano Banti, anche se per ragioni diverse -, Viani fu un inappartenente, non legato a un particolare stile pittorico, e infatti ne frequentò diversi, senza per questo assorbirne definitivamente uno. Una pittura per l’uomo e sull’uomo, uomo che raffigura con pochi sapienti tratti, ora vicini ai Macchiaioli, ora a Toulouse Lautrec, ora al Cubismo, ora al Simbolismo. Un tratto, il suo, che sa di pesce secco e aghi di pino, di sole e di libeccio, aspro come certe pagine di Pavese o Fenoglio, come lui profondamente legati alla loro terra natia, un tratto che evoca pensoso silenzio, più pesante del tuono, per citare Emilio Isgrò.
I suoi disegni e le sue tele ci parlano della Versilia, non quella vacanziera cui siamo abituati oggi, ma una qualsiasi striscia di terra dove il pane quotidiano costa sudore, fatica, amarezza e umiliazione. Un discorso artistico che affonda le proprie radici concettuali in Courbet e Millet, e lo fa cantore di un’Italia grossolanamente definita minore, marginale, reietta.
A Viareggio, allora stazione balneare di un certo prestigio culturale, ebbe modo di conoscere Leonida Bissolati, Andrea Costa, Menotti Garibaldi, Giacomo Puccini, Gabriele D’Annunzio, Plinio Nomellini, e tuttavia le sue frequentazioni abituali erano nell’ambiente anarchico-socialista, in quel Casone, ritrovo di vagabondi, ricercati e liberi pensatori. E non ancora diciottenne, profondamente colpito dalla forza della lotta di classe che interessò anche Viareggio, divenne membro del gruppo anarchico locale.
Anche nel corso dei suoi numerosi soggiorni a Parigi, Viani ebbe poco occhio per le luci dell’ormai agonizzante Belle Epoque, e continuò a guardare agli umili, mentre lo sfarzo dei Grand Boulevards appare in unico disegno a matita, che ritrae una coppia a passeggio elegantemente vestita, presa però di spalle. La verità del volto, quella che più interessa Viani, la ritroviamo nei vagabondi che incontrò al dormitorio La Ruche, microcosmo di miserie, afflizioni, impossibili sogni, e vagheggiate rivoluzioni, che ogni notte vi trovavano rifugio. Viani passò anche attraverso l’esperienza della Prima Guerra Mondiale, che lo segnò profondamente, e a differenza di Ardengo Soffici che rientrò dal fronte con nella mente la necessità di un ritorno all’ordine, avvertì l’urgenza di parlare del dramma che aveva scosse le coscienze d’Europa, in primo luogo quelle dei soldati che avevano vissuto l’orrore delle trincee. La mostra ce ne offre uno spaccato, attraverso una serie di caricature dalle quali, paradossalmente, emerge la verità dell’uomo, sospesa fra quell’arguzia che ricorda Agnolo Tricca, e la spigolosità di George Grosz. Opere quali Suonatore di piffero (di una banda militare), Soldato tedesco, Soldato inglese, si fanno ambasciatrici di un personalissimo espressionismo.
Invece, il suggestivo carboncino Il pazzo, (nella foto), ricorda gli stilemi del primo Picasso, mentre Verso la Darsena per l’imposatzione scenica è apparentabile al Cristiano Banti della maturità (Processione, Passeggiata al tramonto). E ancora, un richiamo all’arte toscana lo ritroviamo nel disegno a carboncino Incontro, dove appaiono tre figure umane, un vecchio, un ragazzino, e una donna. Se lo confrontiamo con una xilografia di Quinto Martini, dove spicca una famiglia contadina che comunica la profondità del rapporto fra i congiunti, l’onestà del proprio lavoro, e sembra evocare la benedizione dell’artista su quegli uomini di buona volontà, ci accorgiamo che in Viani, il titolo è solo un pretesto, uno schiaffo all’osservatore. Le figure sono su piani diversi, con il vecchio signore sullo sfondo che guarda a terra con occhi umiliati; la donna, in primo piano, guarda lontano non con speranza, ma con disillusione, e il ragazzino rivolge a lei, presumibilmente la madre, uno sguardo duro e accusatorio. Le figure sono su piani diversi, c’è distacco fra le generazioni, indifferenza fra gli individui.
Artista non etichettabile, attratto dai concetti più che dagli stili, fu anche scrittore (i romanzi Ritorno alla Patria, I Vageri, Il figlio del pastore, e Parigi, diario dell’esperinza francese), una prosa, la sua, che ricorda Lautréaumont e i Canti di Maldoror, per quella prosa visiva e spesso allucinata con la quale ritrae gli “ultimi”, ma che al contempo si trasforma in prosa elegiaca di un paesaggio e di una terra.
Viani si pone su quel sentiero narrativo della corrente intellettuale della solitudine, che annovera autori, in particolare scrittori, quali Pavese, Calvino, il Pratolini di Allegoria e Derisione, il Malaparte dei Racconti, e, in tempi più recenti, Pier Vittorio Tondelli, anche se trasposto in una dimensione urbana. Una corrente poco frequentata dall’Italietta borghese, guardata, se non proprio con sospetto, comunque con supponenza. Dalle tele, i disegni, le pagine di Viani, emerge una condizione di voluta emarginazione, alla ricerca del silenzio, di un ideale – anche spicciolo -, e una funzione sociale quasi mitologica, di anello mistico fra l’uomo, il mito, la natura. Personaggi, i suoi, che in parte ricordano gli strànnik del mondo contadino russo. E il già citato Pazzo, è testimonianza di vicinanza verso quel mondo della follia che nasconde però un carattere quasi profetico.
Una grave affezione polmonare pose fine ai suoi giorni, ma anche in ospedale trovò la forza di rappresentare i suoi compagni di sventura.
Viani ci parla di un’Italia che preferiamo ignorare, ma che pure è ancora sotto i nostri occhi, perché, non troppo diversamente da quanto accadeva per i tenaci e orgogliosi versiliesi del primo Novecento, anche oggi il pane quotidiano costa fatica e umiliazioni.

Niccolò Lucarelli

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