Quando si litiga, la politica risponde. Specie sui social. A maggior ragione quando si avvicinano le elezioni e fanno comodo le tifoserie già pronte: perché spaccare i cittadini su un fronte, quando fanno già tutto da soli e possiamo dar loro le risposte che vogliono?
Da qui nasce l’animalismo elettorale. Scritto così pare una brutta malattia o una critica quanto meno caustica ad alcuni candidati. E invece no. Animalismo elettorale è il rinnovato e sorprendente interesse che i partiti in corsa per le europee mostrano per la questione animale.
Diverse associazioni raccolgono i punti salienti dell’impegno politico programma per programma, a uso degli elettori, con tanto di liste di nomi di chi si è distinto per il suo interesse (o menefreghismo) nei confronti degli animali.
Qui casca l’asino ovvero il politico. Alcuni punti sono abbastanza ovvi: nessuno auspica l’estinzione di specie animali a causa del bracconaggio, che porta con sé anche una notevole evasione fiscale bisogna dirlo; meno che mai qualcuno potrebbe sostenere il diritto a torturare gli animali da compagnia (invece con le persone si può, data l’assenza di una legge in materia) e tutti noi vogliamo continuare a respirare grazie alle foreste.
Il vero problema sta altrove; ossia quando la questione animale tocca il mondo del lavoro, come nel caso dell’agricoltura, dell’allevamento e della ricerca scientifica: qua la faccenda si fa nebulosa e le risposte diventano generiche e tutte uguali; il che è un po’ un peccato perché è proprio su questi temi che si consuma la lotta tra animalisti e no. E al politico, tapino, non resta che promettere tanto per poi non dire assolutamente niente di concreto.
La conversione degli impianti agricoli e di allevamento comporterebbe un ripensamento della produzione e dei consumi: rispettare la terra e gli animali, in modo logico ma anche etico, comporta produrre meno e consumare anche meno, il che non ci farebbe male considerando i dati sull’obesità e i disturbi cardiaci e oncologici. Siamo sicuri di voler cambiare le nostre abitudini? E poi tutta la gente che ci lavora dove la mettiamo? Ripensare vuol dire cambiare, innanzitutto il modo di pensare delle persone, e creare posti di lavoro e questo comporta per forza attese e licenziamenti che, si sa, non portano molti voti.
La maggior parte del dibattito tra i cittadini si ferma prima, ad un livello meno tecnico: ruota intorno alla sensibilità personale, cioè a quanto siamo disposti a rinunciare in termini di etica quando si tratta di mangiare, indossare, usare gli animali. Il dibattito ruota intorno all’empatia che essendo personale non può portare ad un risultato oggettivo, al massimo potremmo arrivare ad una soluzione democratica che scontenti tutti allo stesso modo.
Una cosa che però hanno in comune tutti gli estremisti è l’arroganza, che li rende ciechi: si potrebbe evitare di mangiare bestie che vengono cotte vive, dal poco apporto nutritivo ma grande uso di crudeltà; si potrebbe ammettere che certe pietanze hanno però forti radici culturali e che la coesione di un popolo spesso passa attraverso lo stomaco; si potrebbe accettare il fatto che non è possibile vivere ad impatto zero ma allo stesso tempo fregarsene ai massimi livelli non è proprio sintomo di grande intelligenza. E così via.
La scelta di usare o non usare gli animali, e quanto farlo, è figlia del benessere: possiamo farlo perché siamo ricchi, tendenzialmente in salute e con un sacco di tempo da usare per litigare tra di noi; in altre parti del mondo non esiste il lusso di perdersi dietro tali questioni; questo dovrebbe farci riflettere e non dico portarci al compromesso, basterebbe anche qualcosa meno, tipo farsi ognuno i fatti propri.
Alice Porta