Il 9 gennaio 1839 il fisico François Arago presentò all‘Accademia delle scienze francese il brevetto di Daguerre, chiamato dagherrotipo, il primo procedimento fotografico per lo sviluppo di immagini.
Il termine fotografia deriva dalla congiunzione di due parole greche: luce (phôs) e grafia (graphè), per cui Fotografia significa “scrittura di luce”. La fotografia è opera della luce e nasce infatti da un principio fisico chiamato diffrazione, che è una sua proprietà caratteristica. La camera oscura e l’obiettivo stenopeico formano il sistema più semplice ed elementare della macchina fotografica che racchiude in sé tutti i principi fisici coinvolti in questa tecnologia. Naturalmente sono stati necessari i risultati ottenuti sia nel campo dell’ottica, sia in quello della chimica e lo studio delle sostanze fotosensibili. La prima camera oscura fu realizzata molto prima che si trovassero dei mezzi chimici per fissare l’immagine ottica in essa proiettata; il primo ad applicarla in ambito fotografico fu il francese Joseph Nicéphore Niépce, cui convenzionalmente viene attribuita per questo l’invenzione della fotografia.
Nel 1813 Niépce iniziò a studiare i possibili perfezionamenti alle tecniche litografiche, interessandosi poi anche alla registrazione diretta di immagini sulla lastra litografica senza l’intervento dell’incisore. In collaborazione con il fratello Claude, Niépce cominciò a studiare la sensibilità alla luce del cloruro d’argento e nel 1816 ottenne la sua prima immagine fotografica (che ritraeva un angolo della sua stanza di lavoro) utilizzando un foglio di carta sensibilizzato, forse, con cloruro d’argento.
L’immagine non poté essere fissata completamente e Niépce fu indotto a studiare la sensibilità alla luce di altre sostanze, come il bitume di Giudea, che diventa insolubile in olio di lavanda dopo l’esposizione alla luce.
La prima produzione con la nuova sostanza fotosensibile risale al 1822. Si tratta di un’incisione su vetro raffigurante papa Pio VII. La riproduzione andò distrutta poco dopo e la più antica immagine oggi esistente fu ottenuta da Niépce nel 1826, utilizzando una camera oscura il cui obiettivo era una lente biconvessa, dotata di diaframma e di un basilare sistema di messa a fuoco. Niépce chiamò queste immagini eliografie.
Nel 1829 fondò con Louis Daguerre, già noto per il suo diorama, una società per lo sviluppo delle tecniche fotografiche. Nel 1839 il fisico François Arago presentò all’Accademia delle scienze francese il brevetto di Daguerre, chiamato dagherrotipo; la notizia suscitò l’interesse di William Fox Talbot, che dal 1835 testava un procedimento fotografico, la calotipia, e di John Herschel, che lavorava, invece, su carta trattata con sali d’argento, utilizzando un fissaggio a base di tiosolfato sodico.
Nello stesso periodo, a Parigi, Hippolyte Bayard ideò una tecnica usando un negativo su carta sensibilizzata con ioduro d’argento, dal quale si otteneva poi una copia positiva. Bayard fu però invitato a terminare gli esperimenti per evitare una concorrenza con Daguerre.
Lo sviluppo del dagherrotipo fu favorito anche dalla costruzione di apparecchi speciali dotati di un obiettivo a menisco acromatico ideato nel 1829 da Charles Chevalier.
La dagherrotipia ottenne un notevole e rapido successo, permettendo di riprodurre fedelmente l’ambiente circostante. All’inizio erano predominanti i paesaggi e le nature morte, principalmente a causa dei lunghi tempi di esposizione necessari. Con l’affinarsi del procedimento e della realizzazione di obiettivi luminosi crebbero i ritratti e qualche timido tentativo di fotogiornalismo.
Il primo esperimento di dagherrotipia in Italia fu tenuto il 2 settembre 1839 a Firenze con attrezzatura prodotta da Giroux, ma la tecnica ebbe immediata diffusione anche in città di media grandezza: ad esempio, già nel 1846 a Forlì era famoso il dagherrotipista Achille Manuzzi, come risulta da un discorso di Aurelio Saffi.
Nonostante ciò in Italia la dagherrotipia fu utilizzata in misura minore rispetto alla popolarità di cui il processo godette in America. La produzione risulta quantitativamente inferiore anche rispetto alla Francia ed all’Inghilterra. In Italia il ritratto fotografico si affermò solo a partire dagli anni successivi al 1855, con le lastre al cotone collodio e le stampe carte de visite all’albumina. L’unico dagherrotipo a soggetto animale realizzato in Italia di cui si sia a conoscenza è quello dell’elefante Friz posseduto da Vittorio Emanuele II (Collezione Simeom C4400).
Immagine d’apertura: macchina fotografica dagherrotipica costruita da La Maison Susse Frères nel 1839, con obiettivo di Charles Chevalier
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