Caso Amistad termina con liberazione degli schiavi ammutinati

Il 9 marzo 1841 la Corte Suprema emette la sentenza nel caso Amistad, decretando la liberazione dei mende, neri provenienti dalla Sierra Leone che dopo essere stati catturati e condotti all’Avana e poi reimbarcati, si erano ammutinati sulla nave di schiavisti che li trasportava, la Amistad, e ne avevano preso il controllo.

Il trasporto illegale degli schiavi a bordo di navi negriere dall’Africa occidentale all’Avana (Cuba, all’epoca colonia della Spagna) era una pratica abituale nella prima metà del XIX secolo, sebbene fosse proibita da tempo. Durante il tragitto i prigionieri erano stivati incatenati in spazi molto ristretti, in stato di malnutrizione e di maltrattamento. Queste condizioni erano ancora più precarie su La Amistad, che non era nata come nave per il trasporto di schiavi, ma di merce per il commercio costiero.

Nel giugno del 1839 dalla nave negriera portoghese o forse brasiliana Teçora, giunsero all’Avana circa 500-700 schiavi catturati in Sierra Leone. Il 26 giugno furono quindi imbarcati sulla Amistad, capitanata da Ramón Ferrer, 53 schiavi mende (49 maschi adulti acquistati da José Ruiz, e 4 bambini, di cui 3 femmine e 1 maschio, questi ultimi acquistati da Pedro Montes ma giunti con un’altra nave). La destinazione del viaggio era il porto di Guanaja, piccola cittadina della costa centro-settentrionale oggi parte del comune di Esmeralda, nell’allora provincia di Puerto Principe, odierna Camagüey, per destinare gli schiavi comprati dagli spagnoli a lavorare nelle proprie piantagioni di zucchero.

Incisione del 1840 raffigurante la rivolta degli Amistad

Durante la traversata, nella notte tra il 30 giugno e il 1º luglio, gli schiavi si ammutinarono, guidati dal mende Sengbe Pieh, poi noto negli Stati Uniti d’America come Joseph Cinque. I prigionieri riuscirono a impadronirsi della nave. Uccisero dapprima il cuoco di bordo, il mulatto Celestino, di origine portoricana, e poi il capitano Ramón Ferrer, spagnolo di Ibiza, mentre altri due membri dell’equipaggio riuscirono a fuggire su una lancia con la quale raggiunsero l’Avana dando l’allarme.

Testo della sentenza della Corte Suprema sul caso Amistad

Degli altri membri dell’equipaggio rimasero in vita Ruiz, Montes e lo schiavo del capitano, Antonio, che fece da interprete. Gli schiavi ordinarono agli spagnoli di cambiare rotta per dirigersi verso l’Africa, ma essi finsero di obbedire ingannandoli, navigando invece di notte verso nord-ovest e solo di giorno verso est. La Amistad fu quindi abbordata il 26 agosto 1839 dal guardacoste USRC Washington del servizio navale della finanza statunitense (la United States Revenue Cutter Service), comandato dal tenente di vascello Thomas Gadney, e da questi presa in custodia poco al largo di Culloden Point, Long Island, New York, dove gli ammutinati avevano fatto gettare l’ancora per recarsi sulla costa e procacciarsi così acqua e cibo.

Per poterne reclamare la relativa ricompensa dovuta al salvataggio della nave secondo le prassi del diritto marittimo, gli schiavi ribelli (considerati merce) furono catturati e condotti in porto a New London nel Connecticut, dove, a differenza dello Stato di New York, la schiavitù era ancora tecnicamente legale.

Il 7 gennaio 1840 i prigionieri furono processati per ammutinamento: il giudice ritenne non rilevante il motivo per cui si trovassero sulla nave, cioè essere schiavi, rispetto al fatto che ne avessero assunto il controllo con la forza. Parte dell’opinione pubblica statunitense non accettò il verdetto e nacque un movimento di dissenso, nel quale si distinse il Comitato della Amistad, che già durante il processo si era battuto per ottenere la libertà dei prigionieri e l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti. Tra i più attivi all’interno del gruppo figurò l’avvocato Roger Baldwin.

Per poter comunicare con gli schiavi un membro del comitato, il professore Josiah Willard Gibbs, Sr., imparò a contare fino a dieci nella lingua mende e si recò al porto di New York, contando ad alta voce. Si fece così notare da James Covey, un marinaio africano della HMS Buzzard (un brigantino appartenente alla Marina britannica) in grado di comprendere e parlare la lingua mende, che divenne così il tramite tra il comitato e gli schiavi.

Grazie al dialogo che finalmente si riuscì a instaurare tra difensori e difesi, il comitato riuscì a dimostrare che gli africani erano stati catturati illegalmente, che l’ammutinamento era stato compiuto per rivendicare il loro diritto alla libertà e che pertanto tale azione non poteva essere considerata un reato. La nuova sentenza, emessa nel gennaio 1840, accolse la tesi della difesa, conferì agli schiavi lo status di uomini liberi e rigettò la rivendicazione della Spagna di Isabella II, che ne chiedeva la restituzione come merce in base al Trattato di Pinckney del 1795.

La sentenza contrastava con la politica del presidente Martin Van Buren, tesa a mantenere buone relazioni con la Spagna e, sul piano interno, a non opporsi direttamente alla schiavitù, evitando uno scontro con gli Stati del sud favorevoli allo schiavismo onde favorire una sua rielezione a presidente. Egli sostenne dunque la decisione dell’accusa di proporre appello alla sentenza, portando il caso dinanzi alla Corte Suprema il 23 febbraio 1841. In difesa degli schiavi si schierò l’ex presidente John Quincy Adams: il 24 febbraio, supportato da Baldwin, tenne la sua arringa, riuscendo a convincere la Corte che il 9 marzo 1841 decretò lo stato di libertà degli imputati.

Poiché il governo degli Stati Uniti rifiutò di sobbarcarsi le spese per il ritorno in Africa dei mende sopravvissuti, un gruppo di abolizionisti e gli stessi africani raccolsero i fondi necessari a noleggiare la nave Gentleman, che partì per la Sierra Leone nel novembre del 1841. Giunti in patria nel gennaio del 1842, trovarono le loro dimore distrutte e le loro famiglie scomparse, probabilmente in seguito ad altre razzie di commercianti di schiavi.

Immagine d’apertura: la Amistad al largo di Culloden Point, Long Island, New York, il 26 agosto 1839, in un dipinto recente

Bibliografia

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