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Aboliti delitto d’onore e matrimonio riparatore in Italia

Il 5 settembre 1981 in Italia vengono aboliti il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, due lasciti legali del Codice Rocco di epoca fascista. La loro abolizione è considerata un punto di svolta fondamentale per i diritti della persona in generale e delle donne in particolare.

Il delitto d’onore era un’espressione presente nel Codice Penale per indicare un particolare tipo di omicidio che, poichè causato per difendere “l’onore” risultava in una pena minore per l’assassino. Il Codice Penale stesso all’articolo 587 recitava: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.” In altre parole, fino al 1981 L’art. 587 del Codice Penale Rocco in vigore dal ventennio fascista, concedeva, in caso di omicidio per disonore, uno sconto della pena. In questo modo lo stato giustificava parzialmente il delitto stesso.

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Franca Viola, prima donna in italia a opporsi al matrimonio riparatore. la sua vicenda sollecitò il cambiamento nella legge relativa allo stesso

Il matrimonio riparatore era invece regolamentato dall’articolo 544, che recitava così: “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio che l’autore del reato contragga con la persona offesa estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. Riassumendo, per il colpevole di stupro il reato si estingueva se lo stesso si rendeva disponibile a sposare la vittima, spesso minorenne. A sollecitare la richiesta del matrimonio riparatore erano soprattutto i familiari della vittima che non vedevano altra strada per ripristinare il loro onore perduto. Ciò sia per non alimentare il vociare popolare in una società spesso ancora di mentalità patriarcale e maschilista, sia perché la ragazza non essendo più “illibata”(vergine) avrebbe avuto difficoltà, a causa della mentalità sopra accennata, a trovare marito. A perdere l’onore, infatti, era solo la vittima e non il criminale che l’aveva violentata. Lo stupratore offrendosi di sposare la vittima accollandosi tutte le spese matrimoniali evitava la pena detentiva, il tutto in una visione per cui la donna era considerata un oggetto e una proprietà, ragion per cui se la si “rompeva” violentandola, bisognava “tenersi i cocci” e pagare i “proprietari”, ossia la famiglia di lei, sposandola. Va ricordato che all’epoca lo stupro viene infatti ancora considerato un reato non contro la persona ma contro la moralità pubblica e il buon costume. Solo nel 1996 lo stupro diventerà un reato contro la persona.

A sollecitare nella società la revisione del Codice Rocco relativamente a questi temi fu la vicenda di Franca Viola, la prima donna italiana a rifiutare il matrimonio riparatore. Franca Viola il 26 dicembre 1965, all’età di 17 anni, fu rapita da Filippo Melodia, un mafioso locale, con l’aiuto di 12 complici e quindi violentata, malmenata e lasciata a digiuno, quindi tenuta segregata per otto giorni inizialmente in un casolare al di fuori del paese e poi in casa della sorella di Melodia; il giorno di Capodanno, il padre della ragazza fu contattato dai parenti di Melodia per la cosiddetta “paciata”, ovvero per un incontro volto a mettere le famiglie davanti al fatto compiuto e far accettare ai genitori di Franca le nozze dei due giovani. Il padre e la madre di Franca, d’accordo con la polizia, finsero di accettare le nozze riparatrici e addirittura il fatto che Franca dovesse rimanere presso l’abitazione di Filippo, ma il giorno successivo, 2 gennaio 1966 la polizia intervenne all’alba facendo irruzione nell’abitazione, liberando Franca ed arrestando Melodia ed i suoi complici. Melodia fu infine condannato il 17 dicembre 1966 a 11 anni di carcere, ridotti il 10 luglio 1967 al processo di appello di Palermo a 10 anni con l’aggiunta di 2 di soggiorno obbligato nei pressi di Modena. Sentenza confermata in Cassazione il 30 maggio 1969.

Bibliografia e fonti varie

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