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Ma Che Colpa Abbiamo Noi

Strusciando i piedi per terra arrestò il vecchio motorino da sempre privo dei freni.

Era un ferrovecchio pieno di ruggine, più volte ripitturato a pennello, in modo maldestro. L’ultima mano gliela aveva data con della vernice scadente color nero antracite che lo aveva reso simile ad un grosso scarafaggio.

Appoggiò con esagerata delicatezza il “Ciao” senza cavalletto addosso al muro di un vecchio convento diroccato che aveva ospitato in passato l’ordine delle suore “Rocchettine”.

E si allontanò da quel misero mezzo di trasporto costeggiando quelle vecchie mura scrostate che lasciavano intravedere i grossi mattoni di tufo grigio, umidi di salmastro.

Mentre andava si guardò in giro timoroso, come un australopiteco nella savana agli albori dell’evoluzione della specie umana.

Continuava a toccarsi di continuo la povera faccia marezzata che cominciava a ricoprirsi di peli neri e serrati come setole di un pennello.

Con la mano callosa e piene di vecchie crepe, fece solecchio contro gli ultimi raggi di sole ormai stanchi di riscaldare quel quartiere dimenticato da Dio e dagli uomini.

Fabio Carbone

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