Quand’ero piccola giocavo per strada.
Il tempo e il traffico si fermava in attesa di una pausa del gioco. Il suono dei rimbalzi del pallone scandiva i secondi così come lo schiocco della corda che batteva l’asfalto. Io a tenere un capo, dall’altro Paola a roteare il braccio per creare un ampio arco, al centro Tiziana che saltava a piedi uniti contando uno, due, tre, quattro… fino al successivo inciampo. Cambio di posto, tocca a me! No, è il mio turno. Allora non gioco più con voi!
Il mio piccolo paese di montagna era un regno di incanti e magie per noi bambini.
C’eranole corse sfrenate con i capelli sudati appiccicati alla fronte, i nascondigli nei posti più reconditi, le campane disegnate col gesso sull’asfalto sulle quali saltare con un piede sollevato, recitando filastrocche imperiture. “Il rinoceronte che passa sotto il ponte, che salta e che balla, che gioca alla palla…”
I lunghi pomeriggi venivano interrotti all’ora di cena, quando le madri gridavano all’aria i nomi dei loro pargoli cercando di richiamarli a tavola. Nessuno rispondeva al primo richiamo. Era un assioma. Orecchie chiuse ed occhi indifferenti. Si lasciavano i giochi solo quando, oltre ai nomi, venivano aggiunte le minacce. Se non torni subito domani non esci! Niente gelato! Niente Carosello!
Mani sporche, ginocchia sbucciate, occhi brillanti. Dinamiche infantili che si dipanavano lungo le vie del paese che accoglieva orde di monelli sempre di corsa. Si scopriva il mondo ad ogni risveglio,a poco a poco, vicolo dopo vicolo, anfratto dopo anfratto. I più grandi con a seguito il codazzo dei fratellini da tenere d’occhio, qualcuno dei grandi usciva di casa con l’ultimo nato appollaiato sul passeggino, contornato da bambolotti o da mele rosse da rosicchiare per merenda. Come cuccioli ci allontanavamo sempre di più dalla sicurezza della tana, sbarrando gli occhi sulla realtà che ci coglieva quasi di sorpresa. Ma guarda dove porta questa strada?! Ma vedi tu cosa c’è dall’altra parte dell’orto della nonna di Corrado?! E questa fontana? Lo sapevate che c’era? Ogni gioco era una storia, ogni storia era un mondo che inventavamo per noi e che moriva ogni sera al tramonto. Liberi di essere bambini, inconsciamente grati del niente che avevamo ma che pareva così tanto, difficile quasi da stringere tra le nostre piccole dita.
Loreta Chenetti
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