Tutti lo chiamavano “zio Carmelo”, non perché fosse zio per legami di parentela. No, quello era un modo rispettoso di rivolgersi a una persona in età, stimata e ben voluta.
Del resto a Centocase, borgo appunto composto da un centinaio, o poco più di case, poste su una piccola collinetta che si affacciava sul mare, si conoscevano tutti e zio Carmelo era forse uno fra i più anziani.
Un uomo minuto, ossuto, vispo, sulla settantina avanzata. Mani grandi e nodose che raccontavano il duro lavoro dei campi. Viso magro, con due occhietti curiosi; viso scavato da una ruga che si appianava quando salutava qualcuno, quando s’illuminava per un sorriso, quando ritornavano i suoi ragazzi per le ferie e in quella casa esplodeva la vita che cacciava via, per un po’, quel velo di malinconia che vi regnava.
Viveva da solo zio Carmelo da quando la sua Mariuccia se n’era andata, buon’anima. Aveva due figli grandi che si erano “fatti” la loro famiglia. Nicola il figlio maggiore, viveva in città e faceva il commerciante all’ingrosso di prodotti agricoli.Aveva un camioncino e faceva la spola dalle campagne, dove comprava i prodotti, ai negozianti, in quella cittadina dove ancora sopravvivevano le botteghe, dove i grossi centri commerciali non erano ancora arrivati.
Quasi ogni giorno Nicola, recandosi dai contadini, passava a salutare il padre, sempre di corsa e, qualche volta, all’andata, lasciava da lui il piccolo Carmelino di 8 anni che era una festa per il nonno. Poi, al rientro, passava a riprenderlo ma, se c’era una vacanza o una festività di mezzo, il ragazzo si fermava volentieri dal nonno e, nel borgo, si sapeva che, dal nonno era arrivato Carmelino.
Angela Badalucco
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