Mi chiamo Fathima, sono nata a Khartoum, chissà dove morirò.
Ho trentotto anni. Ne avevo ventitre quando me ne sono andata dal mio paese. Mi sentivo già vecchia.
In Italia sono rinata.
Ho sempre sentito di essere fatta per altre cose, e che non sarei rimasta in Egitto. Il mio paese era uno dei più poveri dell’Africa centrale. Le condizioni di vita erano peggiorate dopo le proteste popolari contro quel bastardo di al Bashir, dittatore per oltre trent’anni.
Fin da piccola cercavo un’esistenza semplice ma libera, non spudorata anche se avevo curiosità su tutto, ma chi non le ha? Non mi sentivo colma dei peccati degli altri, o colpevole di oscenità subite. Succedeva anche lì. Perfino di subire palpeggiamenti che mischiavano ripugnanza e piacere, in un paese dove in taxi, negli autobus, per strada sentivi la radio che predicava e cantava il Corano. Dove tutto era insegnamento islamico. Dove per una donna era pericoloso mostrare la propria bellezza, la forza, il coraggio.
A sedici anni, ancora troppo giovane per parlare, ma considerata inaffidabile, mi hanno fatto sposare. A diciotto avevo già Abu. Diventata madre, la mia prima preoccupazione era esserci per lui. In fondo, la prima cosa che mi veniva richiesta, ma non l’unica nel mio caso. Ma il mio esserci era consapevole del futuro che volevo dare a mio figlio.
Sono dovuta scappare per salvarlo. Per cercare un avvenire migliore per lui e per me. La mia città era diventata un cimitero per le incursioni dei demoni a cavallo. Tra i corpi, che affioravano nel fiume a frotte come pesci dopo un’esplosione, un giorno hanno ritrovato il padre di mio figlio. Colpevole di che? Uno sgarro, forse. Dicevano.
Maria Antonietta Montella
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