«Rebecca» mi dissero, «devi tornare a casa.»
Guardai i miei genitori con la stessa angoscia di chi, incollato alla televisione, vedeva scorrere le immagini agghiaccianti dell’11 settembre 2001.
Mia madre mi mise davanti il piatto di pasta, mentre mio padre, seduto a capotavola, come se fosse estraneo al problema, si limitava a mangiare, masticando rumorosamente e lanciando, di tanto in tanto, qualche parolina di rimprovero ai miei bambini che a stare fermi sulle sedie non ci sapevano stare.
Afferrai la forchetta, iniziai ad arrotolare gli spaghetti e quando stetti per portarli alla bocca, la frase di mia madre bloccò l’azione togliendomi anche quel po’ d’appetito che mi era venuto: «In un matrimonio ci sono anche i difetti.»
Mi guardò per un solo istante, poi si sedette e cominciò a mangiare, stretta in quel suo grembiule d’ordinanza, pronto a scendere in battaglia su un campo quadrato fatto di quattro fuochi accesi e piatti, padelle e teglie riempite fin su il bordo.
Mio marito mi picchiava, mi insultava, mi provava di avere una mia autonomia e mia madre li chiamava “difetti del matrimonio”; mio marito si lasciava divorare dall’alcol e dalla droga, non si curava dei nostri figli e mia madre aveva gli occhi e il cuore ingabbiati nella concezione secondo cui quel giuramento fatto a Dio non poteva essere infranto, anche se quella promessa aveva più peccato che benedizione.
Non mi arrabbiai con mia madre e non provai risentimento, nemmeno verso mio padre: anche loro erano vittime di un sistema malato che ti alitava sul collo con il suo respiro fatto di maschilismo e retropensiero.
E come li sentivo io addosso gli occhi e quelle bocche ignoranti del mio paesino, nella parte centrale della Sicilia, anche i miei genitori li percepivano e ostentavano un onore che nascondeva una violenza tratteggiata dalla normalità, che poi tanto normale non avrebbe dovuto essere.
Io, Rebecca, ho venticinque anni, due figli piccoli e sono una donna vittima di violenza.
Nunzia Caricchio – Cooperativa Sociale Etnos
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