È la sera del 13 novembre 2015 a Parigi, e il giornalista Antoine Leiris è con il piccolo Melvil. A un certo punto qualcuno lo chiama per chiedergli se sia al sicuro. Lui accende la televisione, e viene a sapere dell’attentato al Bataclan, dove la moglie Hélène è andata per assistere a un concerto. E’ l’inizio di un incubo. Il telefono che non risponde, la ricerca affannosa negli ospedali, cui mette fine una telefonata. Inizia una nuova realtà per Antoine e il figlio: una vita a due e non più a tre. Non avrete il mio odio (Corbaccio, trad. Lucia Corradini Caspani, pp. 126, 8, 50 euro) racconta la prima settimana dopo notizia dell’attentato al Bataclan, fino al riconoscimento del corpo di Hélène e al funerale. Passando per quella notissima lettera intrisa di amore e coraggio civile, in cui Leiris dice ai terroristi che loro non avranno né il suo odio né quello del figlio.
Sono passati sei mesi dall’attentato del Bataclan. Lei come sta?
“Come sta” è una domanda che di solito presume risposte semplici. Ma in questo caso è una domanda difficile a cui rispondere. Potrei dire che le cose non sono semplici, ma le cose all’interno sono molto più difficili, quindi preferisco non farlo.
Come mai ha deciso di scrivere la lettera e poi questo libro?
L’ho fatto per trascrivere le parole che si sono imposte e risuonavano in me come una musica. Nel libro prende il sopravvento quel che è successo, ma questo testo mi dà una specie di libertà immensa. E’ un luogo dove mi sento bene. Le ho lasciate essere e cadere sulla carta, poi sono uscite sulla lettera e sul libro. La pubblicazione e il successo che sono seguiti per me sono aneddotici, ma quello che occupa tanto spazio in me sono Hélène, il bambino, il dover rifarsi una vita.
Continuerà a scrivere dopo questa esperienza?
Sì, ho ricominciato a scrivere, in un rapporto intimo con il mio soggetto. Ho scritto come una pioggia, poi ero in viaggio, ma non ne posso parlare ora.
Cosa prova a presentare Non avrete il mio odio?
Non provo alcuna eccitazione. È qualcosa che non ho cercato in vita mia e l’amore del prestigio mi è estraneo. Le case editrici le ho scelte in base alle lettere che mi hanno mandato e così ho fatto con Corbaccio. Ciò che è importante è che le mie parole vengano in Italia a cercare di toccare le persone. La cosa più importante in assoluto è sentire l’effetto delle mie parole, e aver prodotto questo dopo avere passato delle settimane al computer è qualcosa di buono.
Cosa le hanno detto dalla Corbaccio per convincerla a pubblicare con loro?
Questa lettera e questo libro sono qualcosa di intimo. Una parte è aperta per condividerla, un’altra la conservo. Tra le altre cose che mi sono state scritte nella lettera c’è quella che il mio è un libro da cui i mass-media non possono estrapolare una parte. E questo mi fa piacere perché detesto le scorciatoie intellettuali.
Come sta ora Melvil?
È cresciuto e tra poco avrà due anni. Gli regalerò un monopattino. Sta bene, è felice, saggio e curioso, bravo, buono, gentile e intelligente. Io non ho sostituito la madre, e nessuno potrà rimpiazzare Hélène. Lui non è senza madre, ha una madre che è morta. Io cerco di svolgere il mio ruolo di padre e mi occupo di tutto, tentando di dargli sicurezza e stabilità, ma cercando di non fargli sentire il peso della devozione.
Cosa gli dirà un giorno di quello che è successo?
Sarà lui a determinare il ritmo. Io voglio avere la certezza, quando gli parlerò, di dargli le informazioni più complete possibili, costruendo però un discorso che vada al di là. Non siamo in un film e non ci sarà nessuna scena madre. Le cose sono in corso d’opera, si svolgono quotidianamente, e risponderò alle sue domande man mano che vengono. Per questo mi tengo informato, mi sono costituito parte civile, e incontro tutte le persone coinvolte nell’attentato, in modo da potergli dare tutti gli strumenti per costruire una propria verità.
Barbara Caputo