La legge 20 maggio 1970, n. 300 – meglio conosciuta come statuto dei lavoratori – è una delle normative principali della Repubblica Italiana in tema di diritto del lavoro. La legge introdusse infatti importanti e notevoli modifiche sia sul piano delle condizioni di lavoro che su quello dei rapporti fra i datori di lavoro, i lavoratori con alcune disposizioni a tutela di questi ultimi e nel campo delle rappresentanze sindacali; ad oggi di fatto costituisce, a seguito di minori integrazioni e modifiche, l’ossatura e la base di molte previsioni ordinamentali in materia di diritto del lavoro in Italia.
L’esigenza di una regolazione precisa ed equitativa dei meccanismi del mondo del lavoro crebbe nel secondo dopoguerra quando, dovendosi ripensare la strutturazione dello stato post-fascista, la revisione dei rapporti sociali dovette tener conto dell’accresciuta rilevanza del mondo del lavoro fra i temi importanti nel nuovo regime democratico. La nuova Costituzione, al primo articolo, conteneva il riferimento al lavoro come punto fondante dell’ordinamento repubblicano, il che diede un ulteriormente corroborante valore simbolico alle tensioni politiche che, già dalla fine dell’Ottocento, propugnavano forme di “civilizzazione” del lavoro dipendente e subordinato e miravano ad equilibrare in senso democratico la relazione fra padronato e lavoratori.
La normativa italiana di allora in tema era piuttosto scarna: vi erano alcuni istituti, come la fissazione di limiti minimi di età per il lavoro minorile in cave e miniere, la riduzione della durata della giornata lavorativa ad 11 ore per i minori ed a 12 per le donne, il diritto di associazione sindacale e quello di sciopero, le prime normative antinfortunistiche e l’obbligo di forme assicurative (1920), il divieto di mediazione di lavoro (caporalato legge 23 ottobre 1960 n. 1369), ma la normativa fondamentale sul lavoro era contenuta principalmente nel codice civile fascista del 1942.
Politicamente, al principio degli anni sessanta, i diversi tentativi di rafforzare gli esperimenti governativi di centrosinistra si tradussero in un notevole impegno riformista primariamente ad opera del PSI, il principale interessato a quella formula politica. Lo Statuto, in precedenza votato al Senato, venne approvato dalla Camera con 217 voti a favore (la maggioranza di centro sinistra – DC, PSI e PSDI unificati nel PSU, PRI – con l’aggiunta del PLI, al tempo all’opposizione); si orientarono per l’astensione PCI, PSIUP e MSI e si registrarono dieci voti contrari, provenienti non si sa da chi. La legge non ricevette l’avallo del Partito Comunista: «Il Pci si è astenuto per sottolineare le serie lacune della legge e l’impegno a urgenti iniziative che rispecchino la realtà della fabbrica», scrisse l’Unità del 15 maggio a pagina 2, «il testo definitivo contiene carenze gravi e lascia ancora molte armi, sullo stesso piano giuridico, al padronato». Alla Camera intervenne Giancarlo Pajetta, che sottolineò i punti più negativi del provvedimento ad avviso del PCI: l’esclusione dalle garanzie previste dalla legge nei confronti dei lavoratori delle aziende fino a 15 dipendenti, la mancanza di norme contro i licenziamenti collettivi di rappresaglia. “LO STATUTO DEI LAVORATORI È LEGGE” titolò a tutta pagina l’“Avanti!” del 22 maggio 1970 e affermò nell’occhiello: “IL PROVVEDIMENTO VOLUTO DAL COMPAGNO GIACOMO BRODOLINI È STATO DEFINITIVAMENTE APPROVATO DALLA CAMERA”. L’articolo di fondo del quotidiano socialista proclamava: “La Costituzione entra in fabbrica“, sottolineando «il riconoscimento esplicito di una nuova realtà che, dopo le grandi lotte d’autunno, nel vivo delle lotte per le riforme sociali, vede la classe lavoratrice all’offensiva, impegnata nella costruzione di una società più democratica».
Lo Statuto sancisce, in primo luogo, la libertà di opinione del lavoratore (art.1), che non può quindi essere oggetto di trattamento differenziato in dipendenza da sue opinioni politiche o religiose e che, per un successivo verso, non può essere indagato per queste nemmeno in fase di selezione per l’assunzione. Questi passi trovano una loro spiegazione di migliore evidenza segnalando che, nel dopoguerra, si verificarono numerosi casi di licenziamento di operai che conducevano attività politica o che, anche indirettamente, si rivelavano militanti di forze politiche o sindacali non gradite alle aziende. L’attività lavorativa, l’apporto operativo del lavoratore, è poi svincolata da alcune forme di controllo che la norma giudica improprie e che portano lo Statuto a formulare specifici divieti quali, ad esempio: 1) divieto, per il datore di retribuzione, di assegnare le guardie giurate al controllo dell’attività lavorativa dei lavoratori (secondo l’art.2 tale figura può esercitare esclusivamente la vigilanza sul patrimonio aziendale) 2) divieto d’uso di impianti audiovisivi (art.4) e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. La norma è ripresa dal Codice Privacy che impone la gradualità e i principi di necessità, finalità, legittimità e correttezza, proporzionalità e non eccedenza del trattamento, nonché l’obbligo di informativa del lavoratore. Di particolare interesse, oltre a tutti gli articoli del primo titolo (art.1-13, riguardanti anche il regime sanzionatorio, gli studenti lavoratori, ecc.), è il regime applicativo dello statuto. Sulla base di quanto disposto dall’art.35 dello statuto e dagli articoli dal 19 al 27 nonché dall’art. 18 (oggetto di tante dispute e lotte), applicati ad aziende con “…sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di quindici dipendenti…” (ridotti a cinque per le imprese agricole), si afferma la tutela dell’attività sindacale ed il principio reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento.
La Corte Costituzionale, il 4 luglio 2013, su ricorso della FIOM, ha dichiarato incostituzionale parte dell’art.19 dello Statuto «nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale sia costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori».
Nel 2015 inoltre, durante il governo Renzi, con il Jobs Act è stato abolito l’articolo 18 dello statuto riguardante il divieto di licenziamento senza giusta causa.