Comunicazione

Festival della comunicazione, il linguaggio protagonista a Camogli – Parte 1

Si è da poco conclusa l’edizione 2015 del “Festival della comunicazione”: allestita nella bellissima cittadina ligure di Camogli dal 10 al 13 settembre, la rassegna ha riscosso grande successo. Nonostante l’allerta meteo della protezione civile, che ha costretto gli organizzatori a sospendere l’ultima giornata della manifestazione, il consenso e l’emozione del pubblico erano tangibili.
Nato da un’idea di Umberto Eco, il festival ha accolto circa centoventi ospiti tra esperti di comunicazione, blogger, manager, musicisti, linguisti, scrittori, direttori di giornali e televisivi, filosofi, economisti, social media editor, semiologi, artisti, fisici, psicologi, scienziati e registi. Il filo conduttore di ogni conferenza è stato il linguaggio, aspetto fondamentale della comunicazione, destinato a evolversi ma comunque inestinguibile.

Il venerdì, seconda giornata del festival, ha visto uno degli interventi più attesi e apprezzati: Piero Angela ha condotto con il fascino e il garbo che lo contraddistinguono la conferenza dal titolo “Il linguaggio degli oggetti”. Per ridare vita a un reperto antico è necessario ascoltare ciò che esso ha da dire: Angela parte dal racconto del ritrovamento di due domus romane per spiegare come il cuore del suo lavoro non consista tanto nello spiegare le cose in modo corretto, quanto nell’interessare l’ascoltatore. Il pubblico desideroso di accedere al sapere e alla cultura è vasto, ma spesso la comunicazione è disturbata dall’uso di un linguaggio non adeguato. Parola chiave è “creatività”: è essenziale caricare di emozioni un oggetto o un sito archeologico, poiché senza emotività non c’è memorizzazione. La conclusione della relazione è stata scandita da un interminabile applauso: senza dubbio Piero Angela sa come scuotere le impressioni del pubblico e suscitarne rispettoso affetto.

Poco dopo Maurizio Bettini, professore di filologia classica, ha esplorato “Gli indovini e il linguaggio degli animali”. Protagonista assoluto del discorso è Cicerone: escluso dalla politica per aver preferito Pompeo al vincente Cesare, si dedica quasi esclusivamente ai suoi studi e in pochi anni riesce a comporre un’enorme quantità di opere filosofiche. Il suo “Trattato sulla divinazione” indaga la possibilità di conoscere il futuro. Egli s’impegna a spiegare scientificamente fenomeni “misteriosi” come il sudore delle statue o la colorazione scura che talvolta interessa le acque dei fiumi, al punto da potere quasi definire la sua opera “a carattere illuministico”, impegnata com’è nella negazione di certi poteri. Cicerone ammette la falsità della disciplina, ma è consapevole che la divinazione rientra nella pratica statale ed è considerata essenziale per prendere decisioni. Il segno divinatorio antico, dedotto da segnali della natura come il volo degli uccelli o le viscere di animali, è un modo per risolvere conflitti e trovare soluzioni. L’eredità della divinazione è arrivata ai giorni nostri, florida e diffusa, sotto forma di oroscopi o portafortuna. Nella sfera pubblica, invece, si manifesta come sondaggio: quante importanti decisioni sono prese basandosi sulla rilevazione delle opinioni di un campione più o meno rappresentativo?

Nel pomeriggio il docente e giornalista Stefano Bartezzaghi ha confezionato un divertentissimo intervento incentrato su “Le parole da gioco”. Tra neologismi e palindromi, Bartezzaghi racconta della composizione “Cortona convertita” del religioso Francesco Moneti, che ha reso celebre l’avverbio “precipitevolissimevolmente”. Il professore ribadisce che si tratta di una parola inventata: “precipitevolissimamente” è la versione corretta, e comunque non sarebbe stata la parola più lunga del vocabolario italiano poiché superata da “particolareggiatissimamente”.

Il professore di storia medievale Massimo Montanari ha esplorato il linguaggio della cucina. Anche il cibo parla: nel Medioevo persino una verdura banale come la cipolla comunicava peccato e sofferenza. Insieme all’aglio e ai porri, inoltre, ha rappresentato per secoli un simbolo di povertà. Oggi, invece, sapere che stiamo mangiando una cipolla di Tropea IGT ci parla di territorio.
Il cibo rappresenta un linguaggio grazie alla sua capacità espressiva: diffusione e consumo ci dicono molto a livello sociale, come nel caso dello slogan di una manifestazione leghista “Più polenta, meno cous cous”.
Anche il cibo è regolato da una sua grammatica: il lessico è costituito dall’insieme dei prodotti disponibili, animali e vegetali; la morfologia è la varietà delle forme assunte dai prodotti trasformati dalla cucina; la sintassi è il pasto, che mette in fila le portate seguendo un ordine preciso; la retorica è invece il modo in cui il pasto è allestito e consumato.

Gusti e abitudini sono cambiati col passare dei secoli: gli arabi portarono in Europa zucchero e agrumi, che sostituirono l’usanza romana di ottenere un sapore agrodolce mischiando aceto e miele; originariamente la polenta si otteneva con il miglio, che dopo la scoperta dell’America fu rimpiazzato dal mais; nel Medioevo si mangiava carne di pavone, spodestata poi da quella dell’americanissimo tacchino, più grosso e sostanzioso.

Annalisa Sichi

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