Qualche anno fa, durante la presentazione di una suo romanzo alla libreria Feltrinelli di Prato, Giuseppe Munforte raccontò del quartiere operaio, alla periferia di Milano, in cui era cresciuto. Lui, il primo della sua famiglia a conseguire un diploma e quindi la laurea, raccontava con emozione la vita di un amico di suo padre, un’operaio metalmeccanico, una vita dedita al lavoro per mantenere la numerosa famiglia, il lavoro in fabbrica; il lavoro nel laboratorio che si era ricavato in un garage; il lavoro nell’orto ritagliato nei terreni ancora liberi dai palazzi.
Dopo l’ennesima gravidanza della moglie, alla figlia venuta al mondo aveva dato nome Italia.
Munforte ricordava di avergli chiesto il perché di quel nome e di essersi sentito rispondere, «Ho dato il nome a 9 figli, a questa non sapevo proprio che nome metterle».
Quell’uomo, di cui Giuseppe Munforte teneva a sottolineare la grande laboriosità e insieme dignità, aveva ispirato il suo primo romanzo, Meridiano (Castelvecchi 1998), vincitore del Premio Assisi.
In quello che ora è il suo settimo lavoro, Il fruscio dell’erba selvaggia, troviamo un personaggio che, riferendosi al compagno di stanza nell’ospedale in cui è ricoverato, confessa al protagonista:
L’esistenza di quell’uomo, capisci. Quella che è stata la sua vita. Deve averne avuta una anche lui. Avrà lavorato e lavorato, per tutto il suo tempo. Per i figli, per la moglie. Pochi soldi, una casa da niente in cui però si sente al sicuro. La vita gli è filata via dalle mani così, fffh!, come un soffione. Come aria. Se la sono mangiata gli altri. Ma lui è convinto di averla vissuta. (…) Io lo rispetto, un tipo del genere. Credimi. Cosa avrebbe potuto fare di meglio? Un tempo no, me ne sarei fregato, ma ora mi metterei di fianco a lui e mi farei raccontare la sua vita e starei tutta la sera a ascoltarlo. Così, senza pensare a niente, con i suoi giorni grigi che mi scorrono davanti agli occhi.
Un romanzo, costruito con blocchi narrativi che si intrecciano (un suicidio; una lunga sequenza ospedaliera; una terza parte dove confluisce e si risolve l’intera vicenda) dove il nostro continua a dar voce a chi altrimenti non l’avrebbe, spingendosi ancora più affondo, dagli operai con le loro esistenze grigie fino a chi si è spinto ai margini della legge.
Vite strazianti e disperate ma anche fuorilegge, violente sono quelle dei personaggi di Munforte, uno zio che si toglie la vita dopo un’esistenza fatta di microcriminalità; un uomo, cresciuto dai frati in un’orfanotrofio, poi divenuto un criminale; un religioso nel gorgo del rifiuto della fede.
Il fruscio
dell’erba selvaggia, titolo che viene da un verso del poeta
Evtuschenko, è intriso di un atmosfera noir che ricorda i lavori
dello scrittore premio Nobel Patrick Modiano.
Come a Modiano, del
noir a Giuseppe Munforte interessa quell’alone che circonda le
esistenze dei personaggi, anche le più sordide, sottraendole a un
destino di non-esistenze, di buchi neri della cronaca. Nessuna è
esclusa da un mistero che le sottrae da ogni facile giudizio o
giustificazione, coinvolte tutte nella pietas dell’autore, con una
scrittura che le approfondisce senza svelare. Alle volte è così
difficile ricostruire un volto, episodio, del resto. Munforte ci
ricorda sempre, però, che sono carne come noi, come Giovanna
d’Arco, come Gesù Cristo, rammentandoci quanto scriveva Marguerite
Duras: «Lui, Cristo, è stato assassinato come un deportato
politico. Lei, la strega delle foreste di Michelet, deve essere stata
sventrata, bruciata viva, violentata, assassinata».
Il fruscio dell’erba selvaggia di Giuseppe Munforte, Neri Pozza 2018.