Un tema forte delle campagne mediatiche che ciclicamente si abbattono su chi coltiva verdura straniera a km0, riguarda l’impatto ambientale dello smaltimento scorretto dei rifiuti: lo stato di assedio a cui questi agricoltori sono sottoposti, sia in termini mediatici che in termini di multe salate e spesso confische dei campi con conseguente perdita del raccolto, non aiuta certo il dialogo tra loro e le istituzioni, dialogo essenziale per concertare strategie efficaci per lo smaltimenti dei rifiuti in questione, o anche solo per informare i contadini rispetto ai loro diritti e doveri.
È davvero ancora necessario ribadire che la criminalizzazione non facilità l’integrazione? E a questo proposito, un piccolo sfogo: all’interno di una recente inchiesta sugli orti cinesi sono stati pubblicati una email e un numero telefonico per invitare al dialogo la comunità cinese. Nell’episodio successivo della stessa inchiesta gli stessi recapiti erano offerti a chiunque volesse denunciare attività anomale in corrispondenza degli orti cinesi.
Concludo aggiungendo che i problemi ambientali della piana di Firenze, Prato e Pistoia sono tanti e seri, e la visibilità mediatica data a una decina (o poco più) di contadini cinesi è quanto meno sospetta: da troppi anni stiamo giocando con il dispositivo del capro espiatorio, contro cui scagliare le frustrazioni della collettività in momenti di crisi.
La pressione che viene esercitata sugli agricoltori cinesi, sia in termini mediatici che di controlli, non ha eguali in ambito agricolo/ambientale.
Da cittadino vorrei che il denaro pubblico venisse speso per monitorare i veri problemi che quotidianamente minacciano la nostra salute (penso alle polveri sottili, alle migliaia di metri quadrati di eternit nella piana e così via).
Ma arriviamo al tema centrale del panico-da-orti-cinesi ovvero la natura aliena dei semi e delle verdure in questione.
Anni fa un politico fiorentino fece irruzione in un orto cinese con tanto di troupe di giornalisti: passeggiando e filmando senza permesso tra le serre, si chiedeva se quelli che sembravano spinaci fossero davvero spinaci.
«No – avrei voluto rispondergli – quelli che (incredibilmente) ti sembrano spinaci sono in effetti splendidi esemplari di brassica rapa chinensis», come fu denominato da Linneo questo ortaggio, al tempo dei lumi, quando si pensava che la ragione e la scienza avrebbero spazzato via le ombre dell’ignoranza. Cosa che non avvenne.
Oggi nella piana tra Prato e Firenze quell’antico ortaggio, selezionato attraverso secoli di scienza agraria da abili contadini cinesi, viene generalmente chiamato xian gu cai in wenzhonese e pronunciato all’incirca come shan gu zai (ma in altre parti della Cina è chiamato diversamente, xiao bai cai o qing cai, e in cantonese – e di fatto in inglese – è chiamato bok choy), per comodità propongo un nuovo sistema di nomenclatura, meno intimidente, per esempio cavolino verde cinese
3. Continua nel quarto post