Papà teneva tutto nel suo “ufficio”. Un grande flipper in legno, appena si entrava… ci abbiamo giocato tutti, nei momenti ludici; in fondo, una grande scrivania marrone, con dei piedi molto elaborati, una base in vetro verde, con diverse gradazioni di colori ramificati. Mi ci sedevo e d’un tratto mi sentivo importante. Ma papà mi ha fatto sempre sentire importante e amata. Questa scrivania aveva un grande ma sottile cassetto in centro. Conteneva penne, matite, gomme, carta carbone, timbri e graffette. Due cassettoni ai due lati. Alla destra c’era la carta per la sua mitica macchina da scrivere, Olivetti “Lettera 22”; e alla sinistra, marrone di cuoio con un disegno a sbalzo sopra, un album fotografico, che con passione teneva sempre aggiornato, tralasciando la cronologia degli eventi, a dire il vero. Questo era per me il libro delle favole. L’ho sfogliato tante… tante volte. È la cosa più preziosa, insieme alla casa, che papà ha lasciato.
Alle spalle della scrivania vi era una graziosa vetrina che custodisco gelosamente. Questa conteneva un enorme raccoglitore di molteplici carpette, dove conservava con molto, moltissimo ordine tutti i documenti della sua vita e della famiglia, integrati da precisazioni, appunti e persino dalle buste delle conversazioni epistolari, di lavoro e di famiglia. Questo raccoglitore aveva tre lacci neri, da legare per meglio conservare le carpette. Nella pagina interna del raccoglitore, c’era l’elenco numerato e riassuntivo delle carpette contenute.
Nel piano basso della vetrina si intravedeva tutto ciò che rappresentava il suo hobby preferito: registrare, prima con registratori con le bobine, poi con le cassette. Registrava di tutto, dalla musica alle conversazioni di riflessioni filosofiche che intratteneva con gli amici. Perché papà era sempre circondato da amici, e non solo di giorno, ma aveva anche una vita notturna, per lavoro, e la condivideva con le persone a lui più care. E tutte le mattine mi faceva trovare un panzerotto con la glassa bianca e la ciliegia rossa sopra, con dentro la crema al cioccolato, tutte le mattine! Papà suonava il mandolino da sempre, ad orecchio, e dilettava in ogni occasione tutti; pertanto attaccati ai muri c’erano un mandolino, un bengio, due chitarre e due violini. L’amico inseparabile Mario lo accompagnava appassionatamente.
Recentemente una signora ha detto di mio padre: “Era una persona speciale”. Non occorre nessun altro aggettivo per definirlo, questo li contiene tutti.
Nel restaurare l’album di famiglia, ho deciso di intersecare i documenti conservati gelosamente nelle carpette alle foto di riferimento. Questo mi ha permesso di ricostruire il vissuto di mio padre.
Come ho potuto, per anni e anni, guardare e non vedere, sentire e non ascoltare, avere sempre tutto sotto gli occhi e non rendermene conto? Adesso è tutto chiaro. Ho pianto quando papà morì. Non mi è più capitato.
Ho constatato che tutto ciò che papà ha raccontato di sé era vero! Per molti si trattava di racconti edulcorati, fantasiosi. Si sono rivelate invece esperienze autentiche. Non ha detto di sé nulla che non fosse realmente avvenuto. Questo mi ha notevolmente turbata, perché anch’io sono stata fra quelli a pensare che papà fosse un po’ esagerato. Mi sento in colpa.
Gli anni del 1934/35/36/37 sono testimoniati dalle foto. Nel ’39, abile alle armi, parte a militare. Nel 1940, con la fierezza di servire la Patria e il Re, fa parte dei “Dragoni” della caserma 1° Reggimento Nizza Cavalleria di Torino, alle spalle di Piazza d’Armi.
Papà scrive: “Insieme ai miei ufficiali superiori, il maresciallo maggiore Tinetti, Sua Maestà compresa, giocavamo a cavallo dei cavalli da polo, del quale sua Maestà era tanto appassionato. Venivamo periodicamente al Palazzo Reale a praticare scuola di scherma e di spadaccino e anche di sport. Sua Maestà nutriva grande passione”.
(…) “Partito col 1° Reggimento Nizza Cavalleria per il Confine Italo-Francese, dichiarato lo stato di Guerra, il 16 giugno del 1940 siamo rientrati a Torino e ripartiti per la Croazia via terra: era il 5 aprile 1941”. Le foto testimoniano ancora la sua fierezza nel servire la Patria. Già nel 1941 ricevette le tre stellette, così da essere Caporal Maggiore.
La sorella Olga, a lui molto cara, racconta, riportando le sue parole: “Olga! Avevamo camminato tutto il giorno, con i miei commilitoni. Arrivati in un casolare abbandonato, crollammo tutti per stanchezza, ci addormentammo, Olga! Mi svegliai con un solletico sulla lingua. Era un topo, Olga! Ho sputato per giorni, giorni, e giorni”. E aggiunge: “Quando tornò dalla guerra, mio fratello pesava 33 kg”.
La sorella minore nel 2010 si fa filmare mentre recita alcune poesie e canzoni, che papà mandava ai suoi genitori. Era particolarmente legato alla madre:
Caro papà, non sono un poeta, nemmeno un professore, ma è l’affetto che mi fa esagerare. Farei di tutto per tenervi in allegria. Altra strada non ho, solo questa via. Sopperire potrò senza meno, bensì distante e troppo lontano, ma il tempo vola con celerità e il frutto vostro più caro ritornerà. Una catena ci deve legare, nessuna forza la deve spezzare, ci legheremo per tutta l’eternità. Sono colui che sempre vi penserà. Il Vostro figliolo.
Papà così scrive: “Nel 1942 rientrati a Torino. Abbiamo marciato di nuovo verso la Francia, ritornati nuovamente a Torino”.
(…) “Era il 10 settembre 1943, dopo l’Armistizio, che scardinò le alleanze, ritrovandoci così nemici dei Tedeschi, caddi prigioniero dei tedeschi nella caserma Nizza Cavalleria Corso Stupinigi, 130 (oggi Corso Turati). Prima di portarci in Germania, i tedeschi decimarono il Reggimento a cavallo, facendo un massacro”. Si tratta di circa “milleduecento soldati” del 1° Reggimento “Nizza Cavalleria”. .
Con la Capitolazione di Torino, pero’, anche il loro compito viene messo in discussione. I Tedeschi si mostrano infatti assai restii a servirsi di un Reggimento efficiente e compatto come il “Nizza”, per di più di antiche tradizioni monarchiche. Il timore è che tra i DRAGONI possa scoppiare una improvvisa ribellione in risposta alle violenze inaudite continue di cui è oggetto in quelle ore la Comunità. Se ciò avvenisse, gli occupanti si troverebbero in difficoltà, sia per le scarse forze a disposizione, sia per una temuta reazione popolare a catena che potrebbe derivarne..
Le SS decidono di neutralizzare anche il “Nizza Cavalleria”. Gli Ufficiali del Reggimento vengono arrestati al circolo Ufficiali dai tedeschi. L’indomani all’alba, le SS si presentano in forze davanti alla Caserma di Corso Stupinigi intimando la RESA, che sul momento viene respinta. Soltanto intorno alle 9, vista la situazione, il Reggimento cede le armi e i tedeschi prelevano dapprima tutti gli Ufficiali e i Sotto-ufficiali, portandoli via su alcuni camion, dopodiché organizzano il trasferimento della truppa, dei graduati e dei cavalli.
“La nostra Caserma – testimonia l’allora Sergente Maggiore Sergio Nale – era circondata da autoblinde dell’ex alleato tedesco”.
Quei giorni in cui fu firmato l’Armistizio, furono giorni di caos, violenze, saccheggi, spietati interventi da parte dei Tedeschi, uccidevano spaventosamente con le armi e investendo in velocità con le loro autoblindo. Il popolo era alla ricerca di ogni bene, i loro obbiettivi erano prevalentemente le Caserme.
Riesco a immaginare con profonda angoscia papà lì in mezzo, impaurito, coraggioso… non lo sapremo mai. Di fatto non ne ha mai parlato, ha rimosso tutto.
Le donne in quei giorni manifestarono il cosiddetto “Maternage”, hanno soccorso e messo in salvo molti, moltissimi militari, fornendo loro abiti civili e rifugio. Sono state particolarmente coraggiose nella Caserma del Nizza Cavalleria. Questo dalla storia non fu visto di buon occhio, perché avevano favorito la fuga dei militari. Non dimentichiamo che in quei giorni, subito dopo l’Armistizio, l’Esercito Italiano fu lasciato in balia di se stesso. Si trattò di un comportamento spontaneo e diffuso, che costituisce un elemento identitario assai forte, di genere, prima ancora che comunitario. Le donne pertanto appaiono fin da questo momento tagliate fuori dalle dimensioni delle relazioni di solidarietà, forse autocensurandone il ricordo, inteso come spiacevole.
Nel pomeriggio giunse un ordine: “Insellare!” “Eseguimmo e montammo a cavallo”.
“Completate queste operazioni”, scrive l’allora Caporal Maggiore Dino Gamba, “Intorno alle 15 veniamo incolonnati tutti quanti […] con relativi cavalli circa 500, per andare alla stazione, destinazione Germania. A questo punto il Comandante tedesco commise un grave errore, facendoci salire in sella.
“In quel frangente, continua Gamba, “capimmo che, se avessimo caricato le camionette dei Tedeschi, ci saremmo potuti liberare senza subire pesanti perdite. Così fu: di comune accordo spronammo i cavalli al galoppo, caricando e travolgendo i numerosi soldati di scorta che sparavano in modo disordinato, confusi dalla nostra sortita”.
Il trambusto generale provocato dalla carica, assume proporzioni inimmaginabili. Alle raffiche di mitra con cui i Tedeschi abbattono cavalli e cavalieri si aggiungono le sortite di autoblindo e camionette che a gran velocità percorrono il viale e le strade circostanti, inseguendo e sparando sui fuggitivi. Ed è proprio uno di questi automezzi a travolgere in Corso Stupinigi un gruppo di quelle donne che abbiamo visto protagoniste poco prima, nell’azione di Resistenza, uccidendole.
“Atti di inaudita barbarie si sono ulteriormente svolti in quei momenti. I Tedeschi tranciarono le mani ai mal capitati, per evitare rimanessero attaccati ai camion e per portare via loro fedi e orologi.”
Dagli scritti di papà, leggiamo: “Arrivato in Germania il 15 settembre 1943, Campo 4° F n° 1039 a Tauka, Lipsia. Facevo parte della IMI, Internati Militari Italiani. Mi hanno Attribuito il Vorlaufiger Fremben Pass N° 27343 il 5 ottobre del 1943, il lascia passare per entrare ed uscire dal Campo e andare a lavorare nelle fabbriche di Lipsia e Tauka, alla Bmw, Gerste Witz. Trasformato in lavoratore civile, il 12 agosto del 1944. Il lavoro era anch’esso uno strumento di morte, per sfinimento. Si partiva alle 4 del mattino e si tornava all’una di notte. A Lipsia, 200 politici sono stati bruciati vivi nei forni crematori. Ci nutrivano con bucce di patate, a volte intrise di cianuro, qualche tozzo di pane lo racimolavo suonando per i Tedeschi il mandolino.
(…) Eravamo vicini al campo di concentramento di Buchenwald e ci arrivò la notizia della fine della Principessa d’Italia Mafalda di Savoia, internata perché sposata con il Conte Maurizio D’Assia, tedesco. Ferita durante i bombardamenti, le fu amputato un braccio e lasciata morire dissanguata”.
Questi sono dati presi dai suoi appunti, utilizzati ai fini pensionistici. Appunti talvolta con una calligrafia da scarabocchio. Partendo da ciò mi sono dedicata a questa ricostruzione. Importante è la lettera che scriverà nel 1976 a Sua Maestà il Re Umberto di Savoia, nella quale , dopo più di venti anni, esprime finalmente le sue emozioni: “Soffrii due lunghi anni di prigionia. Maestà, anche in pace e per molti anni ho sofferto e soffro ancora, poiché la Guerra non ha cessato e non accenna a porsi in fine e la ritengo la più distruttiva ed è quella dell’ ANIMA e dello SPIRITO”.
Quando papà si accingeva a raccontare come si era salvato al campo, seduto con la gamba accavallata, incurvava le spalle così tanto che pareva sostenere tutto il peso del mondo. La sua sigaretta sembrava non spegnersi mai. Si accaniva, come per voler rimandare indietro ciò che era costretto a ricordare.
Ecco il racconto che papà ha fatto a noi, solo poche, ma poche volte: “C’era un corri corri generale, gli aerei sopra di noi sganciavano bombe in continuazione. Correvamo in direzione dei Bunker, lì ci rifugiavamo. Correvo, correvo, già indebolito e stremato dal lavoro. In mezzo al fumo, ( non so se fosse sera, non capivo nulla), vidi seduta nella veranda di una casa, una donna, e con lei nessuno: l’avevano lasciata da sola. Non ci pensai neanche un attimo: salii quei due, tre scalini, e mi accorsi che era su una sedia a rotelle. Era anziana, la presi di impulso in braccio e la portai nel rifugio con me. Ci salvammo. Ma non dal forno crematorio, perché debole com’ero, non servivo più per lavorare. Avanzavamo un passo alla volta, in fila uno a uno. Il vento portava il fumo lontano da noi. In realtà non mi accorsi dell’arrivo di questo Kapò. Mi sentii battere sulla spalla senza capire se l’avesse fatto con la mano o col fucile. Fatto sta che facendomi cenno (come loro costume) con la testa, mi fece uscire dalla fila e mi accompagnò alla mia baracca. La donna che avevo portato nel Bunker era sua madre. Fu così che mi salvai. Seppi in seguito che prima uccidevano col gas e dopo si finiva nei forni crematori”.
Tutto questo non lo ha mai scritto papà. Io e mia sorella siamo ormai le uniche a custodirne il ricordo. Ci sarà un giorno in cui i nostri figli si faranno delle domande e al posto di “non ricordo” troveranno dati e risposte. Perché tutto ciò non venga dimenticato.
Ho trovato infine tre fogli originali dattiloscritti dal “Comitato Italiano di Assistenza”, con data Lipsia 10 maggio 1945, menzionati anche nella lettera scritta al Re, nei quali si afferma che papà si occupò personalmente di dare degna sepoltura ai suoi compatrioti caduti in quei territori, nel Camposanto per Italiani di St.-Friedhef a Lipsia, fornendo poi alle autorità italiane i nominativi e le posizioni schematiche.
Liberato dal campo di Tauka dagli alleati il 25 maggio 1945, viene trasferito a Lipsia. Rientrato in Italia, viene portato nel campo di Concentramento di Fossoli(Modena), un campo di smistamento, il 2 luglio 1945. Rientra a casa il 10 luglio 1945.
Com’è stato possibile che non mi sia accorta, sfogliando l’album, quanto la sensibilità di papà sia rimasta profondamente colpita dalla GUERRA. Nella sua vita vi è uno squarcio di sette anni. Un vuoto che va dal 1941 al 1948. Ci sono voluti ben sette anni, prima che riuscisse a riappropriarsi di quell’anima e di quello spirito persi per la Patria, che ha chiesto agli Italiani un prezzo troppo alto.
Ho chiuso gli occhi , e mi ritrovo dentro quell’anima… HO PIANTO.
Letizia Di Benedetto