Una delle fiabe più conosciute, d’incerta origine e pubblicata in Inghilterra sulla metà dell’Ottocento, si fonde con una storia di mafia. Capita, per i tipi della Bompiani, con Tre piccoli porcellini, romanzo di Apostolos Doxiadis. L’autore, greco di nascita australiana, prestato in adolescenza alla Columbia University a studiare matematica, si era svelato al pubblico con Zio Petros e la congettura di Goldbach, svolto proprio intorno al personaggio di un matematico. Adesso, i tre porcellini sono i tre fratelli Franco, colpiti da una singolare maledizione, anche questo un tema attinto al mito e alla fiaba. Quando raggiungeranno i 42 anni verranno uccisi. Questo perché il padre, il lucano Benvenuto Franco, manifatturiere di scarpe di lusso piombato nel baratro dell’alcool e dell’azzardo in seguito alla vedovanza, uccide in una rissa l’unico figlio di Tonio Lupo, mammasantissima mafioso. La storia, per narrata in stile lieve e accattivante, è la vita dei tre fratelli, destinata come in un sortilegio a interrompersi in età ancora govane.
Doxiadis, da cosa è nata l’idea di scrivere un romanzo intorno a una singolare maledizione?
Maledizione è scritto in italiano nel libro, come nel Rigoletto. Tutto è nato dal mio interesse per le fiabe, che ho raccontato ai miei tre figli. Quello che mi ha colpito nella fiaba dei Tre porcellini è che i bambini si identificavano nel primo, perché volevano tutti essere salvati. I primi due scelgono il piacere e muoiono, mentre il terzo sceglie il lavoro e vive. Così esortavo i miei figli a fare come il terzo porcellino. Nel romanzo ho trasformato questo tema in quello delle scelte di vita. Poi ho voluto un lupo e mi sono chiesto chi potesse essere e ho scelto un criminale, e nella storia ho posto una questione di vendetta e di onore. È molto facile pensare alla mafia perché è presente nell’immaginario. Tutti hanno visto Il padrino o C’era una volta in America. Ho letto molti romanzi sul crimine e ho deciso che si trattasse di una trama ottimale per trasporre un antico dilemma in forma moderna.
Ma qual è il dilemma che si trova al cuore del romanzo in questo peculiare incrocio di fiaba e racconto di mafia?
Si tratta di un romanzo al cui cuore c’è un mistero e non voglio quindi rivelare la fine. Ma l’idea di fondo è che tutti un giorno dobbiamo morire ma lo dimentichiamo. Cosa succede invece se una persona non lo dimentica, se per vent’anni ne è consapevole? Questo porta le persone a pensare seriamente alle loro vite. La prima cosa che si vuole è naturalmente vivere di più, la seconda è che se le persone non hanno fede quel che vorranno sarà ottenere fama e denaro. I due primi fratelli diventano potenti e famosi, e muoiono. Il terzo si comporta diversamente. Ma non ho voluto dare una risposta puramente moralistica. Ci sono cose che contano e sono la famiglia, l’amore, l’amicizia e l’onestà. Tuttavia non avevo bisogno di scrivere un romanzo per dirlo, ma di dire qualcosa di più complesso. Se tuttavia per quanto riguarda i primi due fratelli la narrazione procede in maniera classica per il terzo le cose sono differenti, ma come non posso dirlo.
Il romanzo, che inizia nel primo decennio del Novecento, riproduce in modo affascinante un’epoca, a iniziare dalla Prima Guerra Mondiale, passando poi per la recessione del ’29 e via continuando.
Tutto questo è iniziato in modo molto semplice. In primo luogo volevo dei personaggi che morissero all’età di 42 anni, e far partire la storia da un contesto di immigrazione, e molto immigrati andarono in America alla svolta del secolo. Sono stati dunque questi 42 anni a darmi l’epoca. Ho cercato di rendere la storia in modo fedele e renderla affascinante, ma il punto centrale dovevano essere i miei personaggi, anche se ho cercato di mettere in rilievo le vicende accadute in quel periodo.
Perché partire da una famiglia di immigrati?
Perché volevo ambientare la mia storia in America. Innanzitutto conoscevo il mio lupo, e sapevo che sarebbe stato un “Don” della mafia. E volevo che il legame con le sue vittime fosse il più naturale possibile, dal momento che la mafia in quel periodo era introdotta soprattutto nella comunità italiana, che veniva oppressa, come nel caso della “Mano nera”.
Nella prima parte della sua vita lei ha studiato matematica, poi si è volto al teatro e alla letteratura.
In realtà ero interessato a questi generi fin da piccolo. La matematica si è posta a metà, come una storia d’amore, improvvisamente. L’ho trovata molto affascinante come Dio, l’assoluto. Poi sono tornato ai miei interessi. È stata più di una semplice interruzione ma non sono più interessato a studiarla o insegnarla.