Il 15 marzo 44 a.C viene assassinato nella sede del Senato Gaio Giulio Cesare, trafitto da ventirè pugnalate.
Dopo la vittoria definitiva sulla fazione di Pompeo, Cesare aveva affermato in modo definitivo e totale il suo potere sulla Repubblica Romana e, sebbene egli governasse nei limiti costituzionali del consolato e della dittatura e avesse graziato buona parte dei suoi avversari politici, molti risentivano il suo potere e temevano intendesse abolire del tutto la Repubblica instaurando al suo posto una monarchia personale. Notevoli malcontenti inoltre si erano formati anche all’interno dello stesso partito cesariano: alcuni dei più fidati collaboratori di Cesare, tra cui Marco Antonio e Gaio Trebonio, erano stati esclusi dalla campagna spagnola o posti in secondo piano durante le azioni belliche, e covavano dunque un certo risentimento nei confronti del loro stesso leader, cui erano stati fino ad allora profondamente devoti. Le tendenze al potere autoritario di Cesare, il protrarsi delle guerre civili, le pressioni dei gruppi anticesariani interni al senato e le rivalità esistenti tra gli stessi componenti dell’ambiente cesariano crearono una situazione favorevole allo sviluppo di progetti di congiura che dovevano risolversi con l’uccisione del dittatore; alcune scelte dello stesso Cesare, d’altro canto, quali le aperture verso personaggi che non gli si erano mai mostrati benevoli, apparivano alquanto discutibili agli occhi dei suoi collaboratori, e non facevano che alimentarne il risentimento
I congiurati che effettivamente parteciparono all’assassinio erano una ventina, ma i sostenitori all’interno del Senato erano all’incirca ottanta. Le fonti, come Svetonio e Plutarco, raccontano di vari presagi che avrebbero annunciato l’assassinio. Sebbene questi siano probabilmente narrazioni create post-evento, può essere interessante rammentarle. Ecco qui di seguito cosa dice Svetonio in Vite dei Cesari sui prodigi che precedettero l’assassinio:
«Ma la morte imminente fu annunciata a Cesare da chiari prodigi. Pochi mesi prima, i coloni condotti a Capua, in virtù della legge Giulia, stavano demolendo antiche tombe per costruirvi sopra case di campagna. Lavoravano con tanto ardore che scoprirono, esplorando le tombe, una gran quantità di vasi di antica fattura e in un sepolcro trovarono una tavoletta di bronzo nella quale si diceva che vi era sepolto Capi, il fondatore di Capua. La tavola recava la scritta in lingua e caratteri greci, il cui senso era questo: «Quando saranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo morrà per mano di consanguinei e ben presto sarà vendicato da terribili disastri dell’Italia.» Di questo episodio, perché qualcuno non lo consideri fantasioso o inventato, ha reso testimonianza Cornelio Balbo, intimo amico di Cesare. Negli ultimi giorni Cesare venne a sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato, quando attraversò il Rubicone, al dio del fiume, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Per di più, mentre faceva un sacrificio, l’aruspice Spurinna lo ammonì di «fare attenzione al pericolo che non si sarebbe protratto oltre le idi di marzo». Il giorno prima delle idi un piccolo uccello, con un ramoscello di lauro nel becco, volava verso la curia di Pompeo, quando volatili di genere diverso, levatisi dal bosco vicino, lo raggiunsero e lo fecero a pezzi sul luogo stesso. Nella notte che precedette il giorno della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano di Giove; la moglie Calpurnia sognò invece che crollava la sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d’un tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole. In seguito a questi presagi, ma anche per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo indeciso se restare in casa e differire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato; alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero che lo stavano aspettando da un po’, verso la quinta ora uscì. Camminando, prese dalle mani di uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava il complotto, ma lo mise insieme con gli altri, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto quindi molti sacrifici, senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia, passando sopra ogni scrupolo religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo di dire il falso, perché le idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna, però, gli rispose che erano arrivate, ma non erano ancora passate.»
L’assassinio avvenne il 15 marzo, il giorno celebrato dai romani come Idi di marzo (latino: Idus Martiae), un giorno festivo dedicato al dio della guerra, Marte. Il termine idi si riferiva al 15º giorno dei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre, e al 13º giorno degli altri mesi.. La seduta in Senato del 15 marzo era forse l’ultima occasione propizia per l’eliminazione di Cesare che tre giorni dopo sarebbe dovuto partire per una campagna contro i Geti e i Parti e non a caso gli amici di Cesare avevano diffuso una presunta profezia dei Libri Sibillini nella quale si affermava che i Parti sarebbero stati sconfitti da un re. Il 15 marzo era poi il giorno giusto per l’assassinio di Cesare perché era prevista una festa in onore di Anna Perenna, l’antica dea romana che presiedeva al perpetuo rinnovarsi dell’anno, da svolgere nel Teatro di Pompeo e Decimo Bruto aveva stanziato nella Curia di Pompeo, sede dell’assemblea dei senatori, un certo numero di gladiatori con il pretesto dichiarato dell’organizzazione degli spettacoli.
Così Svetonio, sempre in Vite dei Cesari, descrive l’assassinio:
«Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì , colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta.
Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi.
Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto.
I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido…
…Si decise di murare la Curia in cui fu ucciso, di chiamare Parricidio le Idi di marzo e che mai in quel giorno il Senato tenesse seduta.»
Cesare, secondo la tradizione storiografica, morì ai piedi della statua del suo vecchio nemico, Pompeo Magno. Tra i cesaricidi si annoverano Casca (il primo a colpirlo al collo), Decimo Giunio Bruto (legato di Cesare in Gallia, ufficiale della flotta nella guerra contro i Veneti), Marco Giunio Bruto (figlio di Servilia Cepione, amante di Cesare) e Gaio Cassio Longino (che era riuscito a sopravvivere alla disfatta di Carre ed era poi divenuto uno degli ufficiali di Pompeo a Farsalo).
L’eliminazione di Cesare non fu sufficiente ad arrestare il processo ormai irreversibile della fine della Repubblica. La morte del dittatore innescò infatti una serie di eventi che portarono all’emergere di Ottaviano, figlio adottivo ed erede di Cesare. Nelle successive elezioni consolari furono eletti due nipoti di Cesare: Ottaviano e Quinto Pedio che propose la lex Pedia la quale condannava all’esilio tutti i Cesaricidi, che invece avevano chiamato loro stessi liberatores. Proprio Ottaviano, dopo aver combattuto la guerra civile contro Marco Antonio (che era stato stretto collaboratore del defunto dittatore), pose fine alla Repubblica e instaurò il Principato. Gran parte dei cesaricidi morì di morte violenta già l’anno successivo la congiura, nel 43 a.C., nelle lotte intestine che videro prevalere i cesariani sui repubblicani. Nel 30 a.C. non risultava più in vita alcun cesaricida.
Immagine d’apertura: “La morte di Cesare” di Vincenzo Camuccini (Napoli, Museo di Capodimonte)
Bibliografia
- Svetonio, Vite dei Cesari
- Plutarco, Vite Parallele
- Alberto Angela, Cleopatra. La regina che sfidò Roma e conquistò l’eternità, Milano, HarperCollins Italia–Rai Libri, 2018, ISBN 978-88-690-5392-4.
- Barry Strauss, La morte di Cesare: L’assassinio più famoso della storia, Laterza, 2015
- Roberto Cristofoli, Dopo Cesare. La scena politica romana all’indomani del cesaricidio, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002
- Michael Parenti, The Assassination of Julius Caesar: A People’s History of Ancient Rome, The New Press, 2003. ISBN 1-56584-797-0.
- Tommaso Gazzolo, Montesquieu eversivo: il cesaricidio è un'”azione divina”