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Il cibo della vita (Francesca Facoetti)

Il cibo è vita. Ed oggi l’ho compreso, dopo aver avuto un lungo e problematico rapporto con esso, in passato. Era un’epoca in cui non mangiavo, e l’elaborazione del lutto più importante della mia vita, quello di mia madre, mi portava a rifiutare il cibo come il simbolo della vita.
Oggi mi rendo conto che capisco appieno e forse per la prima volta, l’imprescindibile legame esistente tra la vita e il cibo: io, che in passato per lungo tempo ho rifiutato di nutrirmi, ben consapevole di quello che fosse il mio intento e senza volontà alcuna di affrontare i drammi che la vita comporta.
Io e il cibo siamo vissuti in un’epoca sbagliata, fin da quando mi sono affacciata al mondo in una neonata di appena un kilo e settecento grammi, senza alcun appetito alimentare, ma tanto per la vita.
Comprendo soltanto adesso quello che mia madre deve aver passato, quando si è ritrovata questa bimba che non stava ferma un minuto, ma non amava stare seduta al tavolo a mangiare; ne ha inventate di cotte e di crude questa povera donna, a cominciare dall’aeroplanino e «mangiamo un boccone per la nonna, dai se no ci resta male…»
Col mio ingresso alle scuole elementari è cambiata la mia ostilità sempre covata per il cibo, dato che la mia alimentazione era sempre stata monotematica: uovo e prosciutto cotto erano infatti le uniche cose che mi degnassi di mangiare.
Finalmente ci presi gusto nella vita così come coll’assumere il cibo, trasformandomi in una bimba cicciottella che mangiava e apprezzava proprio tutto; ma ahimè, l’adolescenza era vicina, e quella povera donna di mia madre dovette fare i conti con una ragazzina improvvisamente a dieta.
La mia dieta era più che altro un digiuno, dato che contemplava quasi esclusivamente insalata scondita, e null’altro: e così diventai un’adolescente tutta secca e con un carattere chiuso come la mia attenzione verso il nutrimento.
Era un’epoca in cui trascorrevo ore a pensare, e nei miei attorcigliamenti della mente mi chiedevo che senso avesse il cibo; la morte improvvisa di mamma fece precipitare le cose: sapevo che non stavo mangiando, ma ero sempre e comunque viva, quindi iniziai a pensare che il cibo fosse una cosa superflua. Quella lunga auto-privazione alimentare, mi impediva di vedere che mi stavo lentamente ed inesorabilmente trasformando in uno scheletro dalla pelle giallognola, e quindi sì che il nutrimento sarebbe stato indispensabile.
Fu in quel periodo della mia inesorabile vita, che entrò come un fulmine la professoressa di psicologia: lei mi stette accanto con infinita pazienza, prescrivendomi innanzitutto una dieta rigenerante, ma soprattutto trattandomi con amore vero. Fu l’amore di quest’anima buona a salvarmi; l’amore che veniva dalla preoccupazione per una ragazzina che si stava distruggendo.
Certo l’amore in sé non sarebbe bastato a farmi vivere, ed ebbe il suo buon peso anche la dieta che seguivo un giorno sì ed uno no, quando cioè la mia testa piene di idee sbagliate me lo consentiva; ma per salvare qualcuno dal grande mostro dell’anoressia, è fondamentale l’amore come ponte per imparare la lingua che permette di comunicare con la persona malata.
Perché io ero malata; fortunatamente ora ne parlo al passato, perché oggi non lo sono più. Ci sono voluti anni per guarire, e la tentazione di ricominciare a pensare «senza cibo posso stare», testimonia la drammaticità del problema, e la necessità che il mondo intero continui a promuovere il grande valore nutrizionale che il cibo contiene, cominciando dagli imprescindibili principi alimentari, fino ad arrivare al grande valore della socialità.
Trasmettere amore ad ognuno, è la strada per permettere un rapporto sano con il cibo: perché quando si è anoressici, non si mangia; e quelle rare volte che ciò invece accade, si preferisce farlo nella solitudine più totale, poiché nella solitudine è più facile controllare quel cibo che fa tanta paura.
Oggi io ho imparato a non nascondere più i problemi del mio passato, perché condividere la mia esperienza possa aiutare i tanti ragazzi e ragazze ancora in difficoltà. Ed è un piacere sedersi ad una bella tavolata di tante persone, che ridono, scherzano, chiacchierano e mangiano insieme.
E non fa nulla se talvolta a stare insieme si rovescia un bicchiere o capita di parlare con la bocca piena, ogni tanto è bene dimenticare anche il galateo: perché quello che più conta è la vita vera.
E quel pane aperto sulla tavola da mia cugina, che poi invece è finito nella mia bocca per un errore fortunato, testimonia il grande valore dello stare insieme: perché quando mangi con qualcuno, non esiste il mio e il tuo, ma si trasforma nel nostro.
Mangiare è un’emozione.

Francesca Facoetti

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