Francesco La Magna si accomodò sulla poltrona posta di fronte alla mia scrivania. Lo vidi, con la coda dell’occhio, spostare il peso del corpo sull’arto appoggiato sul bracciolo sinistro della seduta. Sollevò quindi il fianco destro e sfilò la pistola dalla fondina della cintura di ordinanza dell’agenzia di vigilanza che dirigevo. La appoggiò sulla scrivania, con la canna rivolta dalla propria parte. Aveva seguito la procedura prevista dall’agenzia nei casi di colloquio tra agenti e personale direttivo. Solo allora distolsi lo sguardo dal PC che era collegato al sito Notizie di Prato. Da pochi minuti era stata pubblicata la notizia dell’arresto di uno spacciatore magrebino. L’accusa era quella di aver ucciso un mio dipendente. Un omicidio, avvenuto pochi giorni prima, che aveva scandalizzato la città e acceso il dibattito tra le opposte fazioni politiche locali. Fin da subito le indagini si erano incentrate sul magrebino che era stato ripreso dalle videocamere poste alla stazione ferroviaria di Porta al Serraglio. Il nuovo servizio di controllo del territorio eseguito dalla Polizia a Prato nella zona della stazione, una delle aree critiche per lo spaccio di stupefacenti, aveva dato i primi risultati. In aggiunta al sistema di video sorveglianza erano stati impiegati sei equipaggi della Polizia di Stato e due della Polizia Municipale. Secondo l’articolo della giornalista del quotidiano online erano state controllate 86 persone. Il risultato della retata era stato un denunciato per detenzione di sostanze stupefacenti e altre due persone segnalate come acquirenti. In stazione era stato controllato anche un giovane nord africano con precedenti penali a cui era stato notificato il divieto di far rientro nel territorio del comune di Prato. Successivamente la polizia aveva verificato che l’identità dell’uomo corrispondeva a quella del fuggitivo ripreso dalle telecamere la sera dell’omicidio. In quelle immagini era visibile come impugnasse un’arma da fuoco. Inoltre l’impronta del percussore sui bossoli ritrovati nella piazza dell’università, posta sul retro della stazione, era caratteristica della beretta serie ’92. La particolare svasatura del foro di egresso del percussore era la firma della pistola. Secondo l’articolo il giovane era stato trovato in possesso proprio di una beretta serie ’92. Chiusi il sito e guardai negli occhi La Magna.
«Deve essere dura per te aver perso anche un collega come Giacomo». Esordii senza salutare.
La Magna si strinse nelle spalle. Spalle enormi da dio greco su cui si appoggiava un volto indurito da esperienze a cui lo scarno curriculum del La Magna accennava. Su quello, infatti, veniva riportata la data in cui aveva svolto la professione di soldato privato in Iraq: 2004. Dieci anni prima.
«Immagino possa averti richiamato alla memoria l’esperienza in Iraq»
Sospesi ogni ulteriore considerazione. L’utilizzo del termine di esperienza puzzava di ipocrisia. Avrei dovuto evocare il concetto di guerra. Ma avevo preferito essere cauto. L’uccisione del collega Giacomo Arena non poteva aver lasciato indifferente La Magna.
«5000 euro al mese, per 3 mesi di missione, non saldano il conto con lo schifo che vedi in guerra. Tutta la rabbia che devi cancellare al ritorno a casa ti prendono tutte le energie. Non c’è spazio per dispiacersi per i colleghi vigilanti ammazzati da qualche arabo di merda».
La voce di La Magna non conteneva alcuna parvenza di umiltà. Le lancette del suo orologio emotivo erano tutte sul quadrante della rabbia. Essere un mercenario spedito in Iraq, in una terra di conflitto dove le compagnie petrolifere hanno bisogno di guardie private, non aiuta a coltivare il politicamente corretto. Che parlasse di arabi di merda e non provasse niente per il compagno di lavoro ammazzato non mi sorprese minimamente. Era in linea con il personaggio che avevo assunto un anno e mezzo prima proprio su segnalazione di Giacomo Arena. Il quale lo aveva descritto come una persona fidata per altro compagno di una sua cara amica. Proseguii senza far trasparire emozioni.
«Come saprai la Global Security intende fornire supporto psicologico ai propri collaboratori che possono vivere la professione con un alto grado di stress». Notai la smorfia di insofferenza sul volto del mercenario. Che si sollevò dalla poltrona e fece per voltarsi.
«Aspetta». Intimai. E subito lo incalzai con una domanda.
«Che ne direbbe la tua donna se tu perdessi anche questo lavoro?»
Apparentemente sconfitto tornò a sedersi rimanendo sulla punta della poltrona. Sembrava pronto ad andarsene e la postura indicava un disagio profondo. La provocazione dell’invio dallo psicologo e la sferzata della minaccia del licenziamento lo avevano fatto infuriare. Al tempo stesso lo avevano bloccato di fronte alla mia scrivania. Ero in vantaggio ma mi sentivo a disagio. La nuova posizione lo avvicinava troppo alla pistola.
«A proposito della tua donna; ti ha detto che è venuta nel mio ufficio qualche giorno fa?»
Osservai la reazione che fu di sorpresa. Evidentemente non lo sapeva. Si toccò il naso e si coprì la bocca prima di rispondere.
«Sì, me lo aveva detto». Mentì evidentemente. Lo assecondai.
«Immagino che tu abbia apprezzato il fatto che avessimo accolto la sua richiesta. Ti erogheremo il trattamento di fine rapporto. Per farci cosa non è affare mio, ben inteso».
«Ho apprezzato il fatto che mi eroghiate il trattamento di fine rapporto». Si affrettò a dire ripetendo la mia affermazione. Esitò troppo, invece, nel darmi la motivazione della richiesta dell’anticipo della liquidazione. Alla fine, distogliendo lo sguardo e abbassando il tono della voce, riuscì ad argomentare.
«È per l’acquisto di un’auto. La vecchia si è distrutta a forza di andare avanti e indietro dalla fattoria di Iavello».
La fattoria di Iavello era dotata di piccoli appartamenti uno dei quali era stato preso in affitto da La Magna e dalla propria compagna.
Aprii il cassetto della scrivania e presi l’assegno che gli porsi. La Magna provò a sorridere. In realtà riuscì solo ad esprimere una smorfia che accompagnò il passaggio dell’assegno dalla mia alla sua mano. Si affrettò ad infilarlo in tasca e si accomodò, finalmente, sulla poltrona appoggiandosi sullo schienale. Sembrava più rilassato.
«Non leggi l’importo dell’assegno?» Domandai sorridendo.
«Già» Disse quasi sorpreso per la propria leggerezza. Riprese l’assegno e lo lesse.
«Milleottocentotrentacinque euro. Non è molto» Si lamentò. Continuò.
«Casomai manca la firma»
Mi detti uno schiaffo in fronte e mi scusai.
«Restituiscimelo che te lo firmo. Perdona la dimenticanza. Senza firma non vale niente».
Mi misi a ridere mentre mi accingevo a firmare l’assegno bancario. Mi fermai di scatto e sparai a bruciapelo.
«Sai una cosa, Francesco?”. Lo guardai in quegli occhi chiari, freddi ed inespressivi.
“Quando si è recata in questo ufficio, la tua donna sembrava uscita da un ring di boxe. E sicuramente era quella andata KO».
La Magna non fiatò. Continuai.
«È venuta il giorno stesso dell’uccisione di Arena. Nel tardo pomeriggio, per la precisione»
La Magna era schiacciato sulla poltrona.
«E non mi ha chiesto l’anticipo sulla liquidazione. Lo sai cosa mi ha raccontato?»
La Magna taceva. Il suo sguardo aveva cominciato ad appannarsi dietro una cortina di odio e rabbia. Lo sferzai con disprezzo.
«Era venuta a raccontarmi di quanta paura avesse di te. Mi aveva pregato di licenziarti e di privarti della pistola».
Fulmineamente afferrai l’arma e gliela puntai contro. Notai la sua paura. Ma apprezzai soprattutto il suo silenzio che mi permise di continuare.
«Non solo di questa. Anche dell’altra di cui mi ha fornito la fotografia. Una beretta ’92 che avevi portato clandestinamente dall’Iraq. La stessa arma con cui è stato ucciso Giacomo. Il tuo amico». Calcai molto sul termine amico e ripresi.
«Soprattutto l’amico della tua donna. Che aveva convinto a lasciarti».
La Magna provò ad alzarsi.
«Stai fermo lì bastardo». Sibilai tendendo il braccio teso a poca distanza da lui.
Sprofondò di nuovo nella poltrona. Azzardai un racconto.
«La storia è più o meno questa. Tu scopri che Giacomo ama, ricambiato, la tua donna. La picchi per esserne certo. Immagini che lui ti abbia trovato questo lavoro per sapere quando saresti stato fuori casa per servizio e stare quindi in pace con lei»
Il volto di La Magna era sempre più carico di livore. Continuai senza curarmene.
«La sera stessa raggiungi Giacomo mentre fa la ronda alla stazione che conosci bene perché fa parte del tuo giro di controllo e di vigilanza. Gli spari. Naturalmente in quella parte della stazione che sai non essere coperta dalle videocamere. Lasci lì la pistola che non è registrata e nessuno sa che è un tuo cimelio iracheno. A parte la tua donna che mi ha portato le foto». Avevo lo sguardo fermo su di lui. Scosse il capo. Infine parlò.
«Tu, come gli altri, non capisci un cazzo. E come gli altri non hai il coraggio di sparare. Sei un coniglio cresciuto lontano dai campi di battaglia. Adesso esco di qui e me ne vado, stupido idiota».
E così fece. Provai a fermarlo.
«Fermo dove sei. Non obbligarmi a sparare».
Rise. Si alzò dalla poltrona e cominciò ad indietreggiare.
«Sei una merda inutile». Mi insultò.
Aprì la porta e uscì dall’ufficio. Appena fuori fu assalito da tre dei miei uomini più preparati che lo ammanettarono dopo una breve colluttazione risolta con un paio di scariche di taser all’indirizzo del mercenario. Abbassai il braccio e rimisi la sicura alla pistola. Presi il telefono e digitai il 113 della Questura dove passai la notte fra interrogatori e deposizioni. Poco prima dell’apposizione della firma sul verbale il vice questore mi avvicinò e mi offrì un caffè. Aveva sempre dimostrato simpatia nei miei confronti.
«Lo sai come sono andate veramente le cose?» Domandò accarezzandosi i baffi.
Non lo sapevo e non lo nascosi.
«Effettivamente no. Ci sono diverse cose che non tornano».
Buttò via il bicchiere di plastica del caffè della macchinetta automatica, si accese una sigaretta e mi provocò.
«Sentiamo che cosa non torna».
Nonostante fossi stanco, l’adrenalina in circolo mi mise in condizione di rispondere.
«Credo che nessuno abbia sentito i colpi di pistola. Ma non credo che La Magna avesse usato un silenziatore».
Esitai un attimo per dargli il tempo di rispondere. Il suo silenzio mi invitò a proseguire.
«La casualità del ritrovamento dell’arma da parte del nord africano è fin troppo casuale. Non posso credere che sia stato così idiota da portare via un’arma lasciata nelle vicinanze di un corpo senza vita di un uomo in divisa».
Il Vice Questore sorrise. Avevo colto nel segno. Mi dette quindi la soddisfazione di una risposta articolata.
«La Magna premedita l’omicidio. Invita Arena ad un confronto nella zona dei faggi di Iavello in piena campagna. Zona che l’assassino conosce bene perché ci abita. Lì uccide Arena scaricandogli addosso 5 pallottole. È zona di caccia e nessuno fa caso agli spari. Mette il cadavere in auto ed aspetta la sera. Conosce la fauna della stazione e conosce i nascondigli dei pusher. In uno di questi, una fioriera, occulta la beretta con cui ha sparato ad Arena. Ed attende ancora. Fino a quando il pusher frugando nella fioriera dove nasconde la droga trova la pistola. E decide che quello sia il suo colpo di fortuna quotidiano. Da un’arma non registrata si ricava sempre qualche centone. A questo punto il pusher corre via senza nascondere l’arma alle telecamere. Finalmente La Magna molla il corpo senza vita e se ne va. Aspetta che venga ritrovato il cadavere e che vengano visionate le immagini delle videocamere che incolperanno un altro. La Magna crede che si possa dare per scontato un conflitto a fuoco tra uno spacciatore ed un vigilante. Il gioco è fatto ed il delitto è quasi perfetto».
La Magna non aveva però messo in conto la reazione della propria donna che, subito il pestaggio, aveva scelto la denuncia del suo uomo piuttosto che il silenzio per paura. La richiesta di aiuto della donna era stata anomala. Aveva infatti contattato me invece che la polizia. Ma ciò era stato sufficiente a salvarla da una vita grama di violenze e aveva determinato l’arresto di un assassino. Firmate le carte e salutato il Vice Questore scesi le scale della palazzo della polizia e raggiunsi, a pochi metri da lì, il mio ufficio. Entrai nella mia stanza e sentii il bisogno di aprire le finestre. Mi provocava un senso intenso di nausea l’idea di respirare la stessa aria respirata da un assassino. Alzai le tapparelle più che mi fu possibile. Guardai fuori, verso il Museo d’Arte contemporanea che campeggiava vicino alla sede della mia società di vigilanza. Faceva fresco e quel maggio anno 2014 non stava profumando di primavera ma di odio e rabbia. Provai a ripensare a quello che di buono potevo aver trovato in quella brutta storia. Tornai con la memoria alla determinazione con cui la compagna di La Magna aveva denunciato l’aggressione. Purtroppo avevo sottovalutato la richiesta di aiuto della donna. Non aver ascoltato con attenzione quell’urlo di dolore era costata la vita ad un uomo. Bestemmiai a voce alta, sgretolando il silenzio di quell’alba opaca. Poi ripensai all’ultima richiesta della donna che fu poter fare una telefonata, dal mio ufficio, al Centro La Nara. Era un centro di accoglienza di donne maltrattate gestito da donne posto nel cuore dalla città. Mi ripromisi di fare una donazione al centro. Avrei così tentato di curare la rabbia che provavo verso la mia stupidità. Ricordai che, forse per pudore, non avevo chiesto il nome alla donna. O forse non l’avevo chiesto per stabilire una distanza, disumana, tra lei e me. Una distanza che mi avrebbe preservato dall’idea di prendere una posizione palese a sua difesa. Fatto stava che di lei non conoscevo neanche il nome. Conservavo esclusivamente il ricordo di un volto tumefatto dalle botte. Di lei sapevo solo che si sarebbe rivolta al centro La Nara. E decisi di chiamarla così, infine. Decisi di chiamarla Nara e di ringraziare il suo coraggio. Il coraggio di Nara.
Sandro Malucchi