L’8 settembre 1943, Giovannino Guareschi è un tenente di artiglieria che si rifiuta di aderire alla Repubblica sociale italiana e viene deportato in Germania. Nel campo di prigionia, non perde la sua stoffa di umorista, il suo diario clandestino è il Bertoldo parlato, ovvero la continuazione del periodico umoristico e satirico da lui diretto a Milano prima della guerra.
Nel lager non ci sono però Mosca, Manzoni, Metz, Marotta e nemmeno inchiostro, carte, tipografia, rotative. Giovannino doveva recarsi di baracca in baracca offrendosi in lettura: «Sfogliatemi, più che un giornale questa è una nostalgia. Dove mi volete leggere?».
Lo accompagnava l’amico e musicista Arturo Coppola, che con le sue musiche scandiva le letture di Guareschi: «A lui è affidata l’impaginazione musicale del giornale».
Tutti questi articoli sono per Giovannino, a differenza di un «diario vero e proprio», l’unico materiale inerente alla prigionia autorizzato alla pubblicazione in quanto, spiega lo stesso Guareschi, «non solo l’ho pensato e l’ho scritto dentro al Lager, ma l’ho pure letto dentro il lager. L’ho letto pubblicamente una, due, venti volte, e tutti lo hanno approvato».
Gli premeva l’approvazione dei vivi, ma soprattutto dei morti, ovvero l’approvazione di quella che per lui era stata una democrazia di veri galantuomini perché nella vera democrazia i morti contano quanto i vivi, e lui nel Lager aveva conosciuto una vera democrazia dove tutti quegli uomini ridotti pelle e ossa, pur morendo di fame e tubercolosi, avevano costituito una comunità con i suoi piccoli e improvvisati commerci, botteghe artigiane, attività culturali e religiose, il tutto tenuto insieme da quella franca, cordiale, completa mancanza di cordialità che caratterizza ogni consorzio umano degno di tal nome. Ma questo lo diceva lui, Giovannino, perché incarnava quello che lui stesso definiva l’ultimo meccanismo necessario al perfetto funzionamento dell’umana organizzazione: il giornale umoristico. E lo incarnava con due baffi nuovi di zecca.
Coppola, che era anche un abile disegnatore, immortalò in un ritratto il Giovannino del lager, per la prima volta coi baffi, se li era fatti crescere per coprire un po’ quel viso smagrito e per avere qualcosa a cui aggrapparsi.
Nel lager i soldati sognano, o semplicemente si illudono che il tempo fuori del lager si sia fermato in attesa del loro ritorno. Così pensa il capitano X che però deve ricredersi e si stupisce quando gli annunciano che sua figlia è morta, e prima del dolore si chiede come abbia fatto a morire in sua assenza.
In realtà il tempo fermo è quello del lager, dove i soldati sono già i ricordi di loro stessi, di loro stessi vivi o morti. Guareschi osserva i soldati russi e ai soldati russi, mentre lavorano al reticolato, può capitare di immobilizzarsi così come si trovano, chi in piedi e chi seduto, chi con un braccio levato come fossero già congelati in una foto, o in un quadro.
A molti tra i prigionieri italiani i tedeschi consegnavano, di volta in volta, i pastrani dei soldati russi uccisi.
Il tempo della prigionia, o meglio gli istanti di cui si compone, che sono tutti uguali l’uno all’altro così come la fame e la noia provate dagli internati, «sono ormai 18 mesi che soffro la fame, ma ogni giorno è una cosa nuova», scrive Guareschi.
E la noia, una noia talmente profonda che gli avvenimenti epocali di cui giungeva notizia dall’esterno non riuscivano a smuoverla. Non resta che sognare di tornare a casa e di tornare bambini.
Il 16 aprile 1945, Guareschi e i suoi compagni vengono liberati dagli alleati, i tedeschi disarmati e le armi consegnate ai francesi.
Tra le carte del comandante del lager viene ritrovato l’ordine di sterminio di tutti i deportati in caso di ritirata da parte tedesca.
Diario clandestino di Giovannino Guareschi, BUR 2017.