Sono quasi coetanei il direttore bielorusso Dmitry Matvienko e la violoncellista salisburghese Julia Hagen. Entrambi nati negli anni ’90 e ugualmente cresciuti in mezzo alla musica.
Hagen in virtù della famiglia: suo papà Clemens, pure lui violoncellista, quarant’anni fa ha fondato con i tre fratelli il Quartetto Hagen, celebratissimo gruppo d’archi. Poi però maestro di Julia è stato, al Mozarteum di Salisburgo, l’italiano Enrico Bronzi, altro campione della musica da camera insieme al suo Trio di Parma. Matvienko, invece – vincitore del Primo premio alla Malko Competition di Copenhagen nel 2021, il più prestigioso tra i concorsi internazionali per giovani direttori d’orchestra – si è fatto le ossa grazie al supporto di una squadra di bacchette di primissimo piano in Russia, che l’hanno preso a ben volere: si tratta di Vladimir Jurovskij, Vasilij Petrenko, Michail Jurovskij, dei quali è diventato assistente. L’idea di diventare direttore d’orchestra è nata molto presto, intorno ai 9-10 anni, di fronte alle immagini di una registrazione della conduzione del Poema dell’Estasi di Aleksandr Skrjabin a mano di Valery Gergiev durante una masterclass per giovani direttori: «Ero stupito di come una persona possa influenzare la musica attraverso i suoi gesti ed espressioni facciali … Sembrava davvero magico. Sono passati molti anni da allora, ma penso ancora che questa professione
sia completamente magica e misteriosa.» (dall’intervista di
Le Salon Musical)
Per questo suo debutto impagina un programma che incrocia classicismo viennese e compositori russi del ‘900. Da una parte, il Concerto n.1 per violoncello e orchestra di Haydn, creduto perduto per due secoli, finché nel 1961 non ne è rispuntata fuori la partitura a Praga. Segue l’ouverture che Beethoven applicò nel 1814 alla versione definitiva della sua unica, tormentata opera teatrale d’ispirazione libertaria e rivoluzionaria, Fidelio. Dall’altra parte, a rappresentare la Russia, l’espatriato Stravinskij, che scrisse le Danses concertantes tra il 1941 e il 1942 nella sua residenza californiana, come gioco costruttivo di pura astrazione, musica da balletto, ma senza un elemento narrativo unificatore, non a caso venne utilizzata, con il consenso di Stravinskij, per un vero e proprio allestimento coreografico: a New York, nel 1944, con la coreografia firmata nientemeno che da George Balanchine. In chiusura la Nona Sinfonia di Šostakovič. Questa, composta nel 1945, era stata commissionata da Stalin in persona come celebrazione della vittoria sovietica su Hitler, e avrebbe dovuto essere magniloquente e grandiosa. Šostakovič invece scrive una nona magnifica, veloce, divertente, una festa allegra e circense, una dichiarazione d’intenti che si fa beffe delle regole e del potere.