“Più un figlio è costato lacrime
agli occhi della madre,
più è caro al suo cuore”.
Victor Hugo
Porto Cesareo 2017
Com’era bello vederlo ridere il mio Eugenio, mi inondava il cuore di gioia. Quella risata fragorosa mi ricompensava per ogni sacrificio, per ogni momento di sconforto, per ogni sconfitta. Il sole era alto nel cielo in quella mattina di fine Aprile e riscaldava con quel dolce tepore. La spiaggia del mio Salento era vuota e tutta per noi. Il mare, custodisce segreti e misteri ed era lì a raccontare infinità. Un respiro incommensurabile nel quale racchiudere fino alle viscere quell’aria salmastra da rivivere altre interminabili volte, fino a placare momenti di arsura dove respirare rappresenta una ricchezza e non solo sopravvivenza. Il suono armonioso di quella risata era contagioso, uno di quelli che ti arriva dentro al centro di tutti i pensieri e non puoi fare a meno di ricambiare perché sprigiona gioia con la sua ilarità permanente. Con i pantaloni arrotolati fino alle ginocchia a piedi nudi a calpestare la sabbia piacevolmente fredda e sottile, andava verso la battigia e giocava a rincorrere il mare. Correva e rideva, com’era bello vederlo felice, ridevo anch’io come lui allo stesso modo, con quella schiettezza e fragore che fanno eco e solleticano l’anima. Ridere della vita e delle occasioni anche se spiacevoli che possono giungere quotidianamente è il segreto per restare in salute e con la mente sempre efficiente, l’avevo letto da qualche parte ed ero d’accordo anch’io, solo se a ridere era Eugenio perché io avevo imparato a farlo per riflesso. Ridevo ogni volta che rideva lui.
Un leggero venticello ci avvolgeva gradevolmente. Ero anch’io a piedi nudi, sentivo la sabbia solleticarmi i piedi era ancora leggermente fresca dell’aria di primavera. Lo fissavo senza distogliere lo sguardo un attimo, come lo amavo, era tutta la mia vita e sarebbe stato per sempre così fino al mio ultimo giorno, fino al mio ultimo respiro su questa terra.
Eppure sedici anni fa quando mi dissero che avevo dato alla luce un figlio autistico mi rifiutavo di accettarlo. Era così difficile comprendere il disegno di Dio, venne meno la mia fede iniziò a vacillare, come avrei potuto abbracciare la mia croce, ero impaurita e disorientata.
Quando nacque era un bambino bellissimo, aveva due occhioni espressivi e quell’odore capace di annullare tutti gli altri sensi, regnando sovrano attraverso sfumature sottili e sublimi, di ciò che non si vede, non si tocca, non si gusta, non di ode. Di ciò che non si riesce a descrivere con semplici parole. Non volevo accettare che crescendo sarebbe stato diverso da tutti gli altri. Infinite volte si addormentava sul mio seno, ascoltavo il suo respiro come si fa con la buona musica, socchiudendo gli occhi immortalando istante dopo istante ogni emozione nel cervello. Avevo sempre mille premure nei suoi riguardi perché era speciale. Dopo il suo arrivo non ho voluto avere altri figli volevo dedicarmi completamente a lui annullando tutto il resto. Amore solo amore nutrivo, tanto amore quello che nessuno è in grado di restituire, quel bene che aiuta a comprendere ciò che non comprendiamo, Quella necessità, sentimento alimentato dalla divisione tra corpo e anima. Quel bene che una madre riesce volere ad un figlio e forse nel suo caso anche di più.
Amore che frequentemente si scontrava con la disillusione, che faceva capolino quando ero in mezzo alla gente, perché in mezzo agli altri ci sentiamo vulnerabili. Il confronto ci spiazza sempre, ci rende deboli e infinitamente piccoli. Quella paura di riconoscermi in quei gesti, in quel viso, ha alimentato il mio rifiuto, la mia rabbia. Provavo molto imbarazzo incrociando gli sguardi delle persone colmi di pietà. La consapevolezza durante le attività scolastiche quando veniva allontanato e portato in un’altra aula perché diverso e non riusciva a seguire le lezioni, si alzava, urlava, cantava e rideva. Il mio bambino rideva sempre, perfino quando suo padre decise di andarsene via. Non voleva più accettare la situazione, si era stancato di me e soprattutto di lui. Ero rimasta da sola a proteggerlo, era diventato il centro di tutto: delle emozioni, dell’amore, della dedizione. Era la vita stessa, tutto quell’amore impegnava il tempo e la mente, richiedeva pazienza e rinunce. Sacrifici capaci di alimentare brutti pensieri, i quali si materializzavano nei momenti di maggiore sconforto e ti inducevano a pensare l’impensabile. Ho persino immaginato a come sarebbe stata la mia vita senza di lui. Fantasticando di avere un figlio senza problemi, un bambino uguale a tutti gli altri. Fantasie che svanivano come bolle di sapone quando il mio sguardo si posava sul suo viso. Per un solo genitore è faticoso crescere un figlio, se è autistico diventa complicato. Difficoltà da sempre facilitata a causa del suo fascino singolare al quale nessuno rimaneva immune. Una grazia tipica di tutti i bimbi autistici, un’aurea di mistero accentuata dalla luce che traspare negli occhi che li fa sembrare di un altro mondo. Il mio adorato figlio viveva una dimensione speciale, imprigionato nel suo universo nel quale non vi erano sentimenti negativi ma solo spontanei. Ai miei occhi lui era da sempre un bambino superiore, dava l’impressione di conoscere tutto, al di sopra di ogni cosa. Un bambino che non sempre spalancava le porte del suo pianeta, spesse volte voleva escludere di proposito chi non gli piaceva. Io entravo sempre, mi chiudeva fuori di rado. Per questo tra di noi non vi era distinzione tra normalità e anormalità. Eugenio viveva “nel villaggio dei sorrisi”. Lo chiamavo così il suo piccolo universo. Tante volte lo invidiavo, sarebbe piaciuto anche a me vivere nella sua dimensione. Il cuore in quel mondo avrebbe di colpo smesso di sanguinare e la gioia avrebbe azzerato tanti giorni infelici, facendo cicatrizzare di colpo ferite profonde. Quelle che non rimarginano mai, quelle che portiamo con noi ovunque, e che ad ogni pretesto riprendono ad aprirsi. Soprattutto quando immaginavo il futuro, senza il mio aiuto difficilmente Eugenio avrebbe percorso le strade della vita. Ma chi se ne sarebbe occupato quando io non avrei avuto più le energie per camminargli accanto? Avevo paura e mi ponevo quesiti senza risposta. Ero preoccupata, in pena per le barriere, ostacoli di ogni natura, architettonica, strutturale e soprattutto mentale. Nonostante le numerose associazioni di sensibilizzazione, di volontariato. Le diverse strutture che sono nate nel Salento per ospitare disabilità di ogni tipo, rimane ancora tanto lavoro da svolgere. Combattere ogni giorno contro ogni ostacolo, ogni disagio soprattutto con l’ipocrisia perché il diverso fa paura ancora oggi! Mille pensieri mi attanagliavano e mi consumavano dentro perché quelli come Eugenio non gli vuole nessuno. L’handicap di natura psicologica è uno dei peggiori poiché si è indifesi completamente. Erano tante le paure di una madre che lotta ogni giorno con la speranza sempre viva di rendere migliore la vita del suo bambino. Il mio Eugenio è un angelo di Dio, “il dono più grande” che ho avuto dalla vita. Senza il suo aiuto non sarei mai diventata una donna forte e coraggiosa. Senza il mio Eugenio avrei commesso una stupidaggine la più grossa che si può immaginare di compiere quando si cade nella disperazione. Ritrovarsi soli senza nessun aiuto in molti casi si scivola nell’amarezza che ci spinge a compiere gesti estremi. Il conforto di una persona cara è indispensabile quando ci si annulla per un figlio destinato ad un futuro infausto, come un uccellino senza ali. Un periodo buio caratterizzato dalle numerose difficoltà economiche e dal successivo abbandono del padre. Nel rivivere il ricordo di quel giorno provavo profondo dispiacere e tanta vergogna. Ero disperata, svuotata, stanca e mi sentivo tanto sola e vulnerabile. Un misto tra dolore, preoccupazione e smarrimento. Supina avrei socchiuso piano le palpebre cercando di liberare la mente da tutti i pensieri del mondo. Un respiro lento e profondo sarebbe bastato per accomiatarmi alla vita, troppo stretta, troppo amara, troppo diversa da come avrei voluto che fosse. Ero pronta a intraprendere il mio viaggio, rappresentava una sosta alla lotta, alla sofferenza, all’illusione di sopravvivere alla vita. Un attimo di esitazione, in quell’attimo nella stanza accanto la risata del mio Eugenio ignaro dei miei pensieri, delle mie ultime volontà. La mia mano tremante stringeva una manciata di pasticche, quella mano prima di portarle alla bocca resto paralizzata come il resto del corpo. Un istante nel quale Eugenio volle farmi un regalo, una sorpresa inaspettata. Finalmente la sua prima parola giunta in quel momento, come a volermi schiaffeggiare riportandomi alla consapevolezza di ciò che stavo per compiere. Quel gesto volle accarezzare le corde del mio cuore ormai troppo provato e snervato che si limitava a pulsare solo per testimoniare che ero ancora viva. Una parola abbozzata, pronunciata casualmente in un momento determinante. Necessaria per legarmi alla vita.
«Mahhmm!!!»
Mi si raggelò il sangue non riuscivo a crederci, forse sognavo.
«Mahhmm!!! Mahhmm!!!»
Il cuore cominciò a pulsare più velocemente, saltai dal letto e lo raggiunsi e l’abbracciai. Continuò a chiamarmi ancora tante volte, e poi si mise a cantare e a ridere, come sempre. Il mio bambino mi aveva donato un regalo prezioso, aveva salvato la mia vita! Mi sentii così insensata, stavo per fare qualcosa di irreparabile. Chi se ne sarebbe occupato se io avessi ingurgitato quella roba? La vita rimane un dono bellissimo e io ero stata ingrata, indegna di avere un figlio meraviglioso come lui. Piansi tanto mentre lo stringevo forte a me e lui cantava e rideva.
Angelo mio canta,
su note nuove ridisegnate
nel tuo mondo.
Con le tue canzoni cullami,
nelle mie notti insonne
scacciando i pensieri
che mi proiettano al futuro.
Quando io non ci sarò
a specchiarmi nei tuoi occhi.
Dei tuoi sorrisi riempi, le mie giornate
insegnami a ricambiarli con il cuore.
Sono superflue le parole
quando dimora l’allegria
e tu mi abbracci forte,
scacciando la malinconia.
Angelo mio, solo amore
posso donarti e se non basta
tanto altro ne ho da offrire.
Inesauribile il bene mio per te.
Il coraggio talvolta viene meno e la forza, la pazienza non bastano. L’unica vera arma è l’amore, un amore infinito per andare avanti con un figlio che ha continuamente bisogno di te, persino per le cose più semplici come bere, mangiare, andare in bagno. Eugenio dipendeva esclusivamente da me. Senza il suo sorriso avrei fatto l’impensabile. Fu in quel preciso momento che mi resi conto che non ero sola e tra noi ero io a dipendere da lui. Da quando il cielo mi aveva fatto dono di quel piccolo angelo incompreso dal mondo, io ero diventata la persona più ricca della terra. Mio figlio e il mio amore per lui rappresentavano la mia redenzione in questo mondo. Da allora ho iniziato a chiedere perdono non solo a Dio ma a lui. Al mio grande amore, al mio Eugenio un ragazzone tondetto dall’aspetto di un adulto con la testa di un bambino di tre anni. Grazie al quale non ero più sola. Era diventato la mia ombra e io la sua. Rappresentava tutto il mio mondo, la mia unica ragione di vita e di salvezza!
Antonella Tamiano