In collina, non tanto a nord né troppo a sud, su una stradina di campagna accanto a un casale
di fattoria diroccata, in mezzo a un folto cespuglio d’alloro, viveva un esile fico.
Non c’era granché di traffico da quelle parti. Passavano ogni tanto trattori, bagnarole 4×4 e,
soprattutto di domenica, ciclisti: grupponi in tute di fibra sintetica che correvano a più non posso
anche se non gli correva dietro nessuno.
Puzzavano, questi ultimi. Non che i trattori profumino. Ma il fico, al passaggio degli uomini
su due ruote, si sentiva in obbligo di esalare ossigeno in più, e di emanare più fortemente il suo
profumo ficoso.
Non gli costava fatica, anzi. Spargendo gradevoli olezzi attirava api, vespe, e, un giorno, un
ciclista insolito.
Questo ciclista attratto dal fico girava da solo, e andava piano. Così vedeva meglio le
colline, sentiva i loro odori, i loro suoni. Ogni tanto si fermava per dare un’occhiata in giro.
D’autunno si fermava a rubare cachi. Veramente non li rubava, visto che nessuno si
prendeva la briga di coglierli. Il ciclista solitario mangiava la frutta che altrimenti sarebbe marcita:
ciliegie da un ciliegeto abbandonato, nascosto tra alberi più giovani e vistosi; mele da un melo a cui
un comune di campagna aveva accantonato cassonetti dei rifiuti; uva da un vigneto tornato allo
stato brado per via di incespi burocratici.
Mingherlino com’era, il fico in mezzo all’alloro faticava a far spuntare i suoi minimi
fruttini, all’apparenza incommestibili.
«Fermati» sospirava il fico, dalla sua postazione al sole, a una curva della strada. «Fidati».
Le piante, a loro modo, agiscono. Si muovono, indipendentemente dal vento o dai terremoti,
seppure piano. Si fanno capire, da chi ha grande pazienza. Eventualmente, un torrido pomeriggio di
fine estate, il ciclista solitario si fermò accanto al fico striminzito.
Era in crisi di fame. Aveva finito l’acqua nella boccia. Voleva arrivare al paesino, dove c’era
una fontana. Erano pochi chilometri ma tutti in salita. L’appetito vinse la sete. Il ciclista appoggiò la
bici al cespuglio, si asciugò la fronte sul guanto e provò a prendere i fichini appassiti. Non li
raggiungeva. Doveva montare sul tronco snello. Con le scarpe da bici era un’impresa pericolosa.
«Speriamo che valga la pena di rompermi il collo,» pensò.
«Vedrai,» sospirò la pianta, avvicinandogli un ramo.
«Oddio,» esclamò a bocca piena l’uomo. «Meglio che le caramelle.»
«Molto meglio,» esalò contento l’albero. «E hanno pure un piacevole effetto lassativo.»
1
Passò uno stuolo di ciclisti sudati, a testa bassa, con la lingua fuori. Non videro il collega sul
gracile alberello, o comunque non gli fecero caso. In ogni caso, non si sarebbero fermati.
Correvano. Dovevano pedalare il più forte possibile. Avrebbero mangiato dopo.
Il ciclista rampante e fruttivoro si fece una scorpacciata di quei fichi dalla buccia verde
chiara e dal midollo rosso fiamma. Rimontò in sellino carico di energia. Allungò il giro per
esplorare stradine per lui ancora vergini.
Si chiamava Michele. Viveva solo. Lavorava alle poste. Spesso, dopo le due del pomeriggio,
era libero. Non gli sorrideva tornare all’appartamento cui finestra dava su un grosso edificio grigio,
un’ex-manifattura di tabacchi dove non passavano più nemmeno i fantasmi. Piccioni, rondini e
passerotti vi avevano fatto i nidi. Erbacce e alberelli si alzavano tra le crepe nell’asfalto del cortile.
C’era meno vita nell’appartamento.
A Michele non piacevano le voci della televisione e della radio. Non trovava libri che lo
entusiasmassero. Non era fidanzato. Non voleva prendersi la responsabilità per gatti, canarini,
tartarughe né persino pesci rossi. Alcuni colleghi gli avevano regalato un ciclamino per il
compleanno, o a natale, ma Michele si era scordato di dargli acqua, oppure gliene aveva dato
troppa. Il fiore morto rimase sul frigo in cucina finché qualcuno—forse un collega impietosito,
comunque non Michele—lo portò fuori e lo consegnò al bidone.
Visto che la vita di casa era quel che era, Michele si era dato al ciclismo. Anche perché aiuta
a stare in forma. Alcuni suoi colleghi erano soprappeso se non addirittura obesi, e molti di loro
fumavano. Le loro esalazioni gli ricordavano i fantasmi del sigarettificio dismesso, e gli suscitavano
voglia di fuggire verso le colline, dove si respira. Ccomprò una bici da corsa usata. La battezzò
Celestino, per via del telaio blu lattigginoso.
A Michele piaceva dare nomi alle cose. La sua caffettiera due tazze, per esempio, si
chiamava Ascilto. Il bollitore era Zobeida, la sveglia Eumolpo. L’appartamento di Michele
conteneva anche oggetti anonimi, ma non tanti.
Il fico sulla strada in collina aveva cominciato a fruttare solo a quarant’anni suonati. I suoi
fichi erano pochi, piccoli e brutti. I meli, peri, diosperi e anche le vigne della zona beffeggiavano
questa scarsa intrapprendenza.
Un nebbioso pomeriggio d’autunno, quando le altre piante si preparavano per il letargo, il
ciclista si fermò al piccolo fico che ormai considerava un compagno. Voleva dolcezza per
contrastare il freddo grigiore che lo circondava. Si arrampicò sull’esile tronco, attento al solito a
non ferire la corteccia o rompere rami. Fece cadere le ultime foglie gialle. Dovette allungarsi come
un orango per prendere gli ultimi fichi appassiti, avvizziti, quasi neri.
2
Quando mise in bocca il primo di quei miseri grumi si sentì trasportato verso un altro
mondo.
«Oddio,» mugugnò. «Non è possibile.»
«Tutto è possibile,» gli comunicò l’alberello con un fruscìo e un alito di resina, «per chi sa
apprezzare le possibilità.»
«Da ora in poi,» disse Michele il ciclista arrampicante, «tu sei Enrico il fico amico.» Era
contento di aver fatto rima. Con Zobeida e Ascilto era più difficile.
I pensieri degli alberi sono come i loro movimenti: quasi impercettibili. «Sono donna,»
sospirò Enrico il fico.
Ma Michele stava già pedalando via. Non la sentì.
Passarono anni, e sempre più in fretta. Ma per gli alberi il tempo è un’emozione diversa.
Michele era indeciso se dire ai colleghi ciclisti del fico che regalava dolcezza oltre ogni
limite, anche fuori stagione. Passando a tutta birra lo vedevano di striscio tra i rami del suo albero
amico, ma non si fermavano mai.
Indemoniati, dovevano correre sempre più a lungo, sempre più forte, su bici sempre più
leggere, complicate e costose, perché i professionisti vanno così.
I professionisti usano sostanze non proprio salubri per vincere. Gli amatoriali che
sfrecciavano per la stradina in collina venivano aizzati dai loro telefoni. La settimana scorsa sei
andato più forte. Tal de’ Tali a Treviso ha bruciato più calorie di te. Pincopallino a Poggibonsi ha
fatto quella salita in dieci secondi netti, hai capito? Non davano tregua, e regalavano semmai
qualche gigabyte in più, qualche sms gratuito.
Michele non diceva nulla ai ciclisti che passavano furiosi. Tanto non l’avrebbero ascoltato.
Sui rami mangiava, ma non ascoltava nemmeno lui. Enrico, il suo amico fico, che credeva di
conoscere intimamente, gli sussurrava di continuo, «Sono donna. Sono donna donna donna. Vorrei
che tu mi considerassi tale. Sono Enrica, la tua amica.»
La comunicazione può essere difficile, ma a volte è fin troppo facile.
Un pomeriggio di novembre, che era da poco scattata l’ora legale, Michele rientrava da un
lungo giro. Si era fermato per prendere gli ultimi, ma proprio gli ultimissimi fichi che Enrica gli
aveva riservato. Michele si trattenne tra i rami in alto per vedere arrossire le montagne innevate.
Era buio quando si rimise in sellino. «Ciao Enrico,» disse, o pensò. «Ci rivediamo ad agosto.
Comunque nel frattempo ti manderò pensieri quando passo.»
«Grazie amore,» gli disse o pensò Enrica. «Li sento, sai, i tuoi pensieri. Vorrei che tu sentissi
anche i miei.»
3
Michele stava pensando alla dolcezza per cui vale la pena di aspettare tre stagioni quando gli
venne dietro un automobile.
L’uomo che la guidava aveva fretta. Si era appena comprato quel veicolo che andava come
un missile. Per pagare le rate doveva lavorare di più. Per risparmiare tempo costoso dava ordini
telefoniche alla moglie su come voleva la cena mentre tornava a casa. Lo faceva pigiando i tasti
fosforescenti del suo telefonino mega-intelligente mentre ascoltava a tutto volume le quotazioni in
borsa.
Non vide i lumini della bicicletta di Michele. Lo fece volare. Gli passò anche sopra.
La strada era dissestata. Sentendo la botta, il sepensante pilota di Formula Uno credette di
aver asfaltato un gatto morto.
Pigiò il tasto «invia».
Sua moglie lesse: no spaghetti! carne ai ferri perché domani palestra. baci.
Visto che nessuno passava più a coglierle i fichi, Enrica inselvatichì.
D’inverno, anche se non faceva freddo come quando era una piantina immatura, sarà
sembrata un piccolo scheletro grigio a coloro che passavano nelle auto che ormai si guidavano da
sole, per permettere la comunicazione telefonica e telematica ininterrotta. Ma nessuno la guardava,
nessuno la vedeva.
Matthew Licht