Il filo invisibile

Se penso a mia madre una delle prime immagini che mi tornano in mente è la sua figura, sola, davanti allo specchio. Mia madre indossava sempre il rossetto prima di uscire anche quando doveva recarsi semplicemente al bar per la prima colazione. Ella amava sempre ripetermi che “Una donna indossa il suo abito migliore non per piacere agli altri, ma per il bene di sé stessa”.
Anche quel giorno di metà maggio si svegliò presto e compì il proprio rituale mattutino per poi accompagnarmi alla fermata del bus. Tutto seguiva la normalità delle cose che è propria della nostra quotidianità, che più ci annoia quando abbiamo la possibilità di viverla, e più ci manca quando non l’abbiamo più. Quella fu l’ultima mattina in cui vidi il suo chiaro e limpido sorriso che per molto tempo ancora non avrei più rivisto. La mia giornata trascorse come sempre, con le solite lezioni all’università, i soliti compagni che raccontavano delle loro ansie e preoccupazioni in vista dei prossimi esami e poi, come un fulmine a ciel sereno, arrivò la chiamata. Era mio padre che mi pregava di tornare al più presto a casa perché la mamma si era sentita male durante una normale camminata in centro città. La situazione apparve fin da subito molto grave ai medici soccorritori e per questo si decise di trasferirla al più presto al reparto di terapia intensiva dell’ospedale più vicino. Un turbinio di pensieri cominciò subito a farsi strada nella mia mente, una tempesta di domande alle quali non seppi allora, e tuttora oggi non so rispondere. Mia madre, la mia eroina, il mio faro, come era possibile tutto ciò? E soprattutto, perché proprio a lei? Proprio ora, che stavo cominciando a dare un senso alla mia vita e a compiere progetti per il mio futuro da giovane donna. Mentre tornavo a casa le lacrime mi offuscavano la vista, nonostante cercassi di compiere tutto lo sforzo possibile per controllare le mie emozioni ed il mio corpo. Ma dovevo rimanere lucida, ad ogni costo. La verità, in special modo quando ti viene gratuitamente e spudoratamente sbattuta in faccia da persone a te sconosciute, fa molto male. Ricordo ancora le parole del medico di turno che per primo visitò mia madre:” La signora è stata colpita da un ictus emorragico. La situazione è molto grave poiché l’emorragia ha interessato una zona molto delicata del mesencefalo, provocando danni non indifferenti. Attualmente, stiamo lottando per la vita”. Lottando, per la vita. Chi? Chi stava lottando, mia madre? Perché? E contro cosa doveva combattere? Era una partita ad armi impari oppure esisteva anche solo una possibilità che Davide riuscisse a sconfiggere Golia? Oramai lei non poteva più né sentirmi e né vedermi e giaceva immobile su un letto di ospedale. Era lì, completamente nuda e con una miriade di tubi posti in ogni parte del corpo che già stava cominciando a trasformarsi, inevitabilmente, di ora in ora. Accanto a lei, posati su una sedia, i vestiti che indossava quella mattina, strappati ed intrisi di vomito. Aveva una stanza tutta per sé che agli occhi di un bambino poteva assomigliare ad una sorta di navicella spaziale, visti i tanti macchinari che vi si trovavano. Con il passare dei giorni avrei cominciato a prendere l’abitudine a quei suoni strani, a quei ritmi regolari con nessuna battuta fuori posto. C’è un episodio molto particolare al quale assistetti una sera. Il suo ricordo è ancora vivo, perché grande fu l’emozione che mi suscitò in quel momento. Capitò che dimenticai un oggetto nella sua stanza, non ricordo esattamente cosa, non ha importanza. Così tornai in reparto, suonai il campanello ed aspettai che la porta si aprisse. All’inizio non me accorsi subito, recuperai il mio oggetto e mi avviai verso l’uscita. Poi, improvvisamente, la sentì. Era un suono diverso, familiare, ma che in terapia intensiva non aveva il permesso di entrare: era la musica. Nella stanza accanto a quella dove si trovava mia madre l’infermiera della notte aveva portato con sé una piccola radio. La musica che trasmettevano quella sera era insolitamente allegra, gioiosa, e le note seguivano un ritmo così veloce da superare, talvolta sovrastare, quello prodotto dalle macchine. Quelle macchine che avevano un ritmo così regolare e privo di emozioni, ma che sono indispensabili per mantenere vivi quei corpi, per sostenere i battiti dei loro cuori. Tante volte mi sono trovata a pensare a come può essere sorprendente l’essere umano che riesce a adattarsi alle tante situazioni e ai tanti imprevisti alla quale la vita, improvvisamente e senza avvisare, lo mette dinnanzi. E così, nonostante il muro invisibile che ci separava, trovai lo stesso il modo di comunicare con mia madre, un modo del tutto particolare, intimo e solo nostro. Ogni giorno, circa alla stessa ora, i medici si recavano da lei e provavano ad aprire quella che, in termini tecnici, viene chiamata “finestra temporale”. In quel breve arco di tempo i dottori stimolavano mia madre in vari modi per testare la sua capacità di percepire ancora il dolore ed analizzare la sua reazione, nel caso ve ne fosse ancora alcuna. Ed era lì che tutta l’energia di questo mondo provava a raggiungerla, un piccolo ed intenso flusso di vita che confluiva solo verso di lei. Quando io e mio padre ci recavamo a trovarla intuivamo che l’equipe medica aveva compiuto la sua visita quotidiana dai numerosi lividi che lasciavano segni su quelle braccia e gambe inermi. Il mio modo di interagire con lei era però assai differente: fatto di carezze, non di lividi, ricco di emozioni e non di semplici sensazioni. Ogni sera mi recavo da lei e le raccontavo come era andata la mia giornata all’università, che tempo aveva fatto, se ero riuscita a comprarmi quel vestito che a lei piaceva tanto. Proprio come se fosse stata una giornata qualsiasi. Le mie non erano parole raccontate al vento perché sapevo, anzi, ero fermamente convinta che mia madre mi avrebbe ascoltato. Appena sentiva il suono della mia voce reagiva inclinando leggermente il capo: era un piccolo movimento, quasi impercettibile, ma che per me significava che lei c’era, che era con noi. Ed in quel momento, se pur breve, mi sentiva vicino a lei. Era una gioia indescrivibile quando provava a mandarmi i suoi baci, i primi giorni fatti da piccoli movimenti delle labbra per poi invece diventare così sonori! Rispondeva alle mie strette di mano sfiorandomi con le dita ed alle mie carezze con bellissimi sorrisi. Ricordo ancora quando riuscì a vedersi per la prima volta allo specchio dopo l’accaduto: i lunghi capelli neri non c’erano più e le cicatrici delle operazioni erano ancora evidenti sul capo e sulla gola. Reagì scoppiando in un pianto disperato continuando a ripetere: ” Non sono io, questo è un sogno, non è possibile che sia successo proprio a me “. Occorsero ancora parecchi mesi prima che riuscisse ad abbandonare definitivamente la sedia a rotelle, grazie a tutto l’amore che la nostra famiglia poteva darle ed alla pazienza e costanza che lei per prima mostrò durante tutta la durata della riabilitazione. A distanza oramai di anni mia madre afferma di non avere memoria alcuna di quei brevi momenti durante i quali avvenivano le nostre piccole “conversazioni silenziose”; conserva invece ancora il ricordo di brutti sogni fatti di bestie feroci e paesaggi stravolti da tempeste. Fortunatamente, tutto questo appartiene oramai al passato, e posso ancora provare la gioia nel condividere la mia esistenza con la persona che mi ha donato tutto l’amore possibile su questa Terra. Che mi ha donato la vita.

Miriana Paolieri

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