Intervista a Marco Pomponi, single affidatario
Marco Pomponi è uno dei primi single affidatari italiani. Vive a Prato, lavora a Firenze e si considera cittadino del mondo. Propone un’idea di famiglia che sbaraglia legami di sangue e vincoli matrimoniali, perché la sua affettività è senza frontiere. Nell’arcobaleno del mondo che non c’è, sostiene Marco, i colori umani sfumano l’uno nell’altro. Nessuno escluso.
Come è nata l’idea di formare una famiglia affidataria?
L’idea di famiglia è sempre stata presente in me come legame inossidabile che va oltre i problemi e le tribolazioni. Questo è stato il mio vissuto di origine e questo credo sia il punto di partenza di tutto. Crescendo con un esempio di vita positivo non potevo fare altro che tentare anch’io di costruire una famiglia altrettanto forte e bella.
Con un buon lavoro e una discreta stabilità di vita a un certo punto mi è sembrato naturale dare inizio all’avventura, pur sapendo che avrei incontrato un mare burrascoso. Così, del tutto consapevole delle barriere sociali che avrei trovato, un bel giorno mi sono mosso proprio perché il desiderio di dare una mano alla società non poteva più aspettare. Era l’ora di passare all’azione.
Quale è stato il primo passo?
Per prima cosa ho cominciato a frequentare famiglie arcobaleno per ascoltare la loro esperienza, per capire come si erano formate e che tipo di problemi avevano avuto. Mi sono trovato in un ambiente accogliente e questo mi ha aiutato a calibrare i desideri sulle necessità reali.
Immergendomi nelle esperienze degli altri, osservando e riflettendo, un giorno ho pensato che avrei potuto dare una mano ai ragazzi che avevano famiglie in difficoltà. Di lì a breve ho cominciato a reperire informazioni in Internet fino all’incontro con il video del Centro Affidi di Firenze. Da questo momento non ho avuto più alcun dubbio e ho tagliato il nastro di via della mia nuova storia di vita. Ho contattato gli uffici e ho partecipato a un percorso informativo e formativo sull’esperienza di affido.
Come ha vissuto la partecipazione agli incontri?
Mi sono sentito protetto e di fronte a un mondo nuovo che avevo sempre più voglia di scoprire.
Sentivo la mia scelta naturale e non mi sembrava vero di essere già arrivato così avanti. Ero emozionato ma sempre più desideroso di sapere e di imparare.
Ricordo che in quel periodo formativo trascorrevo ogni momento della giornata a prefigurarmi genitore affidatario, immaginandomi a sorridere e a preoccuparmi di far crescere bene i ragazzi come qualsiasi buon genitore.
Dopo questa prima fase di orientamento, come è proseguita l’avventura?
Compiuto il percorso formativo e conclusa la procedura di accettazione della domanda di affido da parte degli uffici competenti, sono entrato a fare parte della banca dati del Comune come genitore affidatario. Direi che è da questo punto che mi sono sentito come in una specie di montagna russa di emozioni. Su e giù con lo stato d’animo, tra opinioni contrastanti, immagini chiare e scure del futuro che mi si stava prospettando, mi sentivo comunque sempre sicuro della mia scelta.
Dopo qualche mese di attesa sono stato contattato e mi hanno proposto l’affido di Samuele, un bambino di circa cinque anni, cinese, con una famiglia in temporaneo stato di difficoltà. Il mio compito sarebbe stato quello di dedicare qualche ora del mio tempo al bambino, andare a prenderlo a scuola, farlo giocare e riportarlo a casa per la cena. Perfetto per cominciare la più bella esperienza della mia vita.
Come sono stati i primi incontri con il bambino? Come li ricorda?
Il primo giorno, emozionato come la prima volta a scuola, mi sono recato a casa di Samuele per la presentazione alla famiglia e l’avvio delle prime uscite insieme alla mamma o con le sorelle.
Samuele mi è sembrato subito un bambino curioso ed intelligente, così dopo i giorni dei primi accompagnamenti ai giardini, l’ho portato in tanti musei, cogliendo al volo le occasioni di visite guidate per bambini, organizzate dall’associazione Muse di Firenze.
Con il tempo ho aiutato anche le sorelle a svolgere i compiti per la scuola e anche questo ha contribuito a stabilire un buon rapporto con la famiglia, che nel frattempo faceva conoscenza anche dei miei genitori. Mio padre e mia madre non hanno avuto alcun problema a interagire con Samuele, le sorelle e i loro genitori. In poco tempo abbiamo formato una grande e unica famiglia allargata. Spesso abbiamo trascorso interi pomeriggi a cucinare e così ho imparato a fare anche i ravioli cinesi in casa.
Ricordo anche che ogni venerdì andavamo a trovare il mio amico Alessandro, che ha una ditta di effetti speciali. Costruisce giostre per parchi tematici e in pratica passa la sua esistenza in compagnia di supereroi in polistirolo. Su ordinazione, con un macchinario che sembra magico, fabbrica spade e qualsiasi accessorio che può fare la gioia dei bambini.
Si può capire in che modo questo mondo fantastico abbia attratto Samuele e la sua vivacissima fantasia. Per lui andare a far visita a Alessandro era una festa a mille colori e l’entusiasmo lo accompagnava nei giorni precedenti e in quelli successivi.
Fra le giornate più emozionanti, però, ne spiccano due. La prima volta al mare, con le sorelle, e la prima volta sulla neve, che fortunatamente arrivò a Reggello, località assai facile da raggiungere.
In tutto l’iter di conoscenza e di costruzione del rapporto con Samuele e la sua famiglia sia io che i miei genitori siamo stati accompagnati dalle professionalità del Centro affidi incaricate di farci da guida e di darci ogni aiuto possibile.
Oggi non ne abbiamo più bisogno, perché siamo tutti cresciuti e collaudati. Per me è del tutto normale passare a prendere Samuele a scuola, dare una mano alla famiglia e vivere la quotidianità insieme a loro. Tuttavia, manteniamo il contatto con il Centro soprattutto quando vengono organizzati eventi. Ad esempio a Natale oppure per vedere la partita della Fiorentina, anche se a Samuele piace il calcio solo quando ci sono goal, e non è sempre possibile accontentarlo!
Cosa le ha insegnato questa esperienza di affido? Che traccia ha lasciato nel suo percorso di vita?
L’esperienza di affido mi ha lasciato una grande forza interiore e una visione assai più ampia del mondo e della vita. Non vedo più confini geografici e ho capito che le persone semplicemente si spostano per cercare una vita migliore, per dare concretezza a una speranza. Per questo sono convinto che dovremmo aiutarci di più e che per farlo sia fondamentale conoscerci, combattendo i pregiudizi con informazioni corrette, confronti e azioni concrete. Alla fine credo che il nocciolo dell’integrazione stia nel fare cose piccole e normali insieme. Non ho nulla da obiettare sui grandi tavoli di discussione ma è altrettanto importante non perdere di vista il fatto che, mentre pensiamo e riflettiamo sul da farsi, ci sono bambini e ragazzi che hanno urgenza di crescere e che non possono aspettare i nostri dubbi e le nostre paure. Ci chiamano, hanno fretta e soprattutto hanno tutte le ragioni del mondo, perché i loro bisogni hanno tempi precisi. Sono treni che passano e che sostano poco. Bisogna essere pronti a salire a bordo e a dare risposte efficaci!
Dopo Samuele ha pensato di continuare con un’altra esperienza di affido?
Certamente, e questa volta oltre alle gioie sono arrivate anche serie difficoltà. Ho cercato di aiutare due ragazzi albanesi, Matteo e Antonio. Con Matteo purtroppo non è andata bene perché aveva sofferenze profonde che troppo spesso lo spingevano in direzioni sbagliate. Insieme con gli assistenti sociali, mi sono prodigato come potevo per essergli di aiuto ma alla fine è stato deciso un aiuto comunitario. Anch’io credo che sia stata una buona scelta, perché alcuni ragazzi possono trarre più giovamento da un team di adulti che si prende cura di loro e da un ambiente che gli dia la possibilità di evolvere nel rapporto con i coetanei, piuttosto che dagli aiuti di un singolo individuo.
Ad ogni modo Matteo è il ragazzo che mi ha insegnato a riflettere di più e meglio sull’integrazione. Per un giovane già sofferente per la mancanza di una guida familiare sicura e per di più appartenente a un’altra cultura, la nostra società è dura da assimilare. Qui si va di corsa, si compete per tutto, fin da piccoli siamo educati a impiegare il tempo in modo estremamente organizzato e a rispondere a forti aspettative di rendimento e determinazione, sia negli studi che nel lavoro. Per un adolescente ferito e in crisi tutto questo può risultare eccessivo, con il risultato che diventa fin troppo facile assumere modi spericolati di vivere per gabbare il profondo senso di fallimento.
A Matteo devo anche l’essere stato costretto a chiedermi cosa avrei potuto fare io, se mi avessero trapiantato nella sua cultura, nelle sue condizioni. Ce l’avrei fatta? Francamente non so, davvero non mi sento di pronunciarmi. Mi limito a sperare che un giorno Matteo ritorni per dirmi “ce l’ho fatta”. Ne sarei felice a più non posso.
E con Antonio come sono andate le cose? È stata un’esperienza simile?
Con Antonio tutto è filato liscio ma l’esperienza è stata particolare perché al di fuori di un legame giuridico. Il mio aiuto è stato del tutto spontaneo e volontario. L’ho accolto due anni in casa e in questo tempo è riuscito ad imparare un mestiere, a trovare un buon lavoro e a farsi numerosi amici.
A questo risultato credo abbia contribuito la mia tenacia nell’insegnargli tante cose a livello amministrativo. Volevo che imparasse a muoversi bene nel nostro ambiente istituzionale e credo di aver raggiunto l’obiettivo, dato che si presenta come un giovane adulto perfettamente integrato.
Adesso la sua vita è cambiata. Ci vediamo meno perché è impegnato a costruire il proprio futuro e ha ritrovato anche la sua famiglia ma io sono contento lo stesso. Siamo sempre in contatto e sa che al bisogno io per lui ci sono e ci sarò sempre.
Adesso che i ragazzi sono cresciuti, com’è la sua vita? Cosa sogna adesso?
Ora vivo di nuovo solo. Antonio, come ho detto, lavora ed è indipendente. Riguardo a Matteo al momento non ho notizie ma spero il meglio. Samuele ha sempre vissuto con la sua famiglia e io continuo a dare una mano a lui e ai suoi genitori.
Il mio sogno? La mia immaginazione oggi vola nel futuro in cui io forse non ci sarò più ma in cui vorrei che ci fossero in piena salute i miei ragazzi, magari riuniti intorno a un tavolo a chiacchierare e a raccontarsi le giornate in piscina, le gite in montagna, il mio perdermi anche con il Gps acceso e altre mie sbadataggini. Sì, perché io di perfetto non ho proprio nulla. Sono solo una persona di sani principi che si impegna e che, con grande aiuto istituzionale e un pizzico di fortuna, è riuscita a portare sorrisi e gioia di vivere.
Dunque, nonostante le difficoltà incontrate, consiglierebbe ad altri la sua esperienza?
Certamente. Con l’esperienza sulle spalle sono ancora più convinto dell’utilità dell’affido e sono contento di tutto quello che ho fatto e che sto facendo.
Ovvio che non sempre le cose filano lisce ma non per questo si deve rinunciare, perché laddove una soluzione non dà gli effetti sperati se ne può sempre pensare un’altra, più calzante alle necessità. L’affido può essere utile anche a questo, a creare una migliore condizione osservativa delle problematiche dei ragazzi. Anche questo fa di noi un valido strumento di aiuto, se ci rendiamo disponibili a mettersi in gioco e ci teniamo pronti ad aggiustare il tiro quando subentrano segnali di disagio.
Ed è più facile di quanto sembra, sia perché non siamo mai lasciati soli dalle istituzioni, sia perché viene in aiuto un grande premio. L’emozione che si prova quando ci si apre all’altro con sincera generosità.
Adesso l’avventura si è trasformata in saggezza d’esperienza, e ne ha lasciato testimonianza nelle pagine di un libro. Che ne pensa dell’aver messo tutto per iscritto in “Liberi di volersi bene”, il libro che ha pubblicato da Eccoci Edizioni?
Credo fosse arrivato il momento giusto per farlo. I ragazzi sono grandi, io ero sereno e disponibile a raccontare per essere di aiuto in un modo diverso.
Non mi sento più bravo di altri per ciò che ho fatto e non cerco gloria. Tuttavia mi ha fatto piacere contribuire a una visione chiara dell’affido e incoraggiare chi teme di fare il primo passo. Scrivere un libro per me è stato questo. Dare coraggio attraverso ciò che è riuscito bene, l’esempio dei miei sbagli e la messa in opera dei continui aggiustamenti di me stesso. Tanti cambiamenti che oggi mi hanno reso una persona migliore.