Entrando in casa, una profonda consapevolezza mi ha attraversato la mente e l’anima: sono sola, non c’è nessuno ad aspettarmi.
E, per la prima volta, ho accettato la realtà dei fatti: si nasce da soli, e si muore in altrettanto modo.
Sì, sono sola, e per la prima volta tutto questo non fa male.
Questo monolocale non è troppo piccolo, perché è giusto per una donna che vive da sola.
Non ci sono valigie e vestiti sparsi per casa, e la cucina è sorprendentemente in ordine.
Tutto tace, nessun corpo gira per casa, nessuna voce urla.
Anche la televisione, quell’aggeggio infernale che ho sempre detestato ma a cui non ho mai saputo rinunciare, giace in un angolo, spenta, come fosse in castigo.
Forse si sta prendendo il suo meritatissimo riposo, dopo l’esagerato uso che ne ho fatto negli ultimi anni.
Dopo ogni litigata, era lì che mi rintanavo.
E quando la porta si sbatteva e rimanevo da sola, avevo costantemente bisogno di riempire quel silenzio assai assordante per me.
Dovevo riempire quelle ore, quel silenzio e la mia vita di qualcosa.
Non sopportavo la solitudine, avevo sempre bisogno di consensi.
Non ero in grado di uscire a fare shopping senza l’aiuto di qualcuno che decidesse se i vestiti che avevo scelto fossero giusti oppure no. Troppo lunghi, troppo larghi.
Non sapevo inviare un articolo di giornale alla mia redazione, senza averlo prima fatto leggere a qualcuno.
E’ scritto bene l’articolo, Samira, invialo. Questa maglia ti sta bene, comprala.
La mia vita ruotava attorno a consensi cercati, a mancanze riempite.
Fame cronica moderata da una caramella.
Mi circondavo di amicizie di circostanza, per sentirmi meno sola.
Fingevo di amare chiunque mi amasse, per non restare senza calore.
Accondiscendevo ad accontentare gli altri, segretamente sperando di avere qualcosa in cambio.
Pensavo che non ce l’avrei fatta ad andare avanti da sola, senza avere qualcuno su cui fare affidamento.
Era sempre stato così, dunque non avevo motivo di cambiare le cose.
Ma quel giorno ero scesa dal letto per la prima volta dopo tanto, troppo tempo, ed avevo pensato: che cosa guadagno ad appoggiarmi a qualcun altro?
E subito la mia mente aveva risposto che no, io non sapevo cucinare, stirare, scegliere gli abiti giusti.
Ma la determinazione era forte, tant’è che la mente attaccò con la storia che, con un po’ di forza di volontà, avrei potuto imparare a fare tutto questo da sola.
Dovevo solo scendere dal letto per iniziare il mio percorso di guarigione, smettere di telefonare al PennyMarket affinché mi portasse il pranzo precotto a domicilio, iniziare ad uscire di casa.
In procinto di uscire, era squillato il telefono.
Era Elisabetta, l’amica a cui delegavo il compito di scegliere gli abiti più giusti per me.
Con l’automatismo tipico di ogni persona affetta dai miei stessi disturbi, mi affrettai a rispondere.
«Francesco non mi ha più richiamato, inviagli un sms e cerca di capire la ragione per cui ancora non si sbriga a cercarmi, ciao Samira!».
Non aveva neanche aspettato che accettassi la sua richiesta.
Lo dava per scontato, perché lo avevo sempre fatto. Né un grazie, né una parola d’affetto. Solo richieste.
Mi ricordai che, nel giro di due ore, sarei dovuta andare in posta: Giuliana mi aveva affibbiato un bonifico e mi aveva detto che lei, a differenza mia, aveva una vita molto movimentata e che sarebbe stata una perdita di tempo rimanere in coda allo sportello postale per ore.
Tutti mi rifilavano incombenze poiché sapevano che da me non avrebbero mai ricevuto un rifiuto.
Non ascoltavo mai le mie esigenze, mai mi ero curata di ascoltare prima ciò che aveva da dire il mio corpo.
Ma quel giorno no, non sarei andata in posta per conto di Giuliana, e non avrei telefonato Francesco per tentare di convincerlo ad uscire di nuovo con Elisabetta.
Dovevo imparare a dire no. Avrebbe fatto male, ma me ne sarei fatta una ragione.
Una nuova forza mi attraversava il corpo con potenza e rompeva ogni corazza: il viaggio è nella testa.
Sentirsi. Percepire il corpo, le emozioni, i pensieri, così come si presentano.
Percepivo la voglia di uscire: era il primo piccolo passo per ricominciare!
Passai dinanzi alla libreria più grande della città e, spinta da un’insolita energia, mi trascinai dentro.
Non vi ero più entrata da anni, poiché non reggevo il confronto tra me e gli altri scrittori, che avevano avuto il coraggio di inviare le loro creazioni a delle case editrici.
Mi chiesi se un giorno avrei mai visto il mio viso stampato sul retro di un libro.
Avevo scritto un romanzo. Tuttavia, la mia fissazione di restare in bilico e la scarsa fiducia in me stessa, mi avevano sempre impedito di fare il grande passo di far passare al setaccio la mia opera.
Decisi che quel giorno avrei fatto click sul tasto invia, e mi sarei sottoposta alle critiche delle case editrici.
Lavoravo da casa per una redazione giornalistica, ed ogni qualvolta il mio articolo veniva pubblicato sul settimanale, sostenevo a priori che gli altri scrittori avessero scritto meglio di me e, alle mie spalle, ridevano delle bazzecole che inviavo in redazione.
Non mi accorgevo, invece, che i miei articoli erano i più apprezzati.
Non mi accorgevo di molte cose all’epoca, persa nel vortice dei miei disturbi.
E’ trascorso un anno. Ripenso a quanto è cambiata la mia vita da quando ho sconfitto la dipendenza affettiva.
Stringo la lettera tra le mani. Da domani vedrò il mio viso stampato sul retro del romanzo che finalmente ebbi il coraggio di inviare. Fu il primo passo per guarire.
Ho fatto click ed ho vinto: il viaggio è nella testa.
Federica Cappiello